Materiali da riporto e identificazione come fonti di contaminazione

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Il TAR di Milano, con sentenza n. 2638 del 14 dicembre 2015 fa il punto su alcuni aspetti della disciplina dei «materiali di riporto» (art. 3 D.L. n. 2/12) in un procedimento che vede coinvolti il Comune ed un condominio sorto su un’area oggetto di bonifica nel 2008.

Il fatto
L’area su cui sorgeva il Condominio era stata oggetto di bonifica tra 2002 e 2008 ed era stato registrato il raggiungimento degli obiettivi di bonifica coincidenti con le concentrazioni previste per i siti ad uso commerciale/industriale dalla Tabella 1B del D.M. n. 471 del 1999.
Nell’ottobre 2013, in considerazione dell’opportunità offerta dal nuovo PGT di Milano, in vista della modifica della destinazione d’uso dell’area da produttiva a residenziale, il Condominio aveva svolto una campagna di indagine ambientale preliminare, dalla quale emergeva, per alcuni parametri (idrocarburi pesanti/C”12, e IPA), la presenza di superamenti delle concentrazioni soglia di contaminazione (CSC) stabilite per i siti ad uso residenziale dalla Tabella 1, Colonna A dell’Allegato 5 al Titolo V, Parte Quarta del D.Lgs. n. 152 del 2006.
Il Comune di Milano, in data 10 marzo 2014, aveva comunicato l’avvio del procedimento di bonifica ai sensi del Titolo V, Parte IV, del D.Lgs. n. 152/2006 e degli artt. 7 e 8 L. n. 241/1990, chiedendo al Condominio la presentazione di un Piano della Caratterizzazione dell’area nel quale si prevedeva, fin da subito, l’acquisizione dei dati sito-specifici per la realizzazione dell’Analisi di Rischio.
Il Condominio aveva poi presentato un documento di Integrazioni al Piano della Caratterizzazione venendo incontro alle richieste avanzate da Arpa e Conferenza dei Servizi in merito ai materiali utilizzati per il riempimento degli scavi di bonifica, e aveva segnalato che, secondo quanto era emerso dall’esame dei dati e della documentazione reperita, a seguito del completamento dei lavori di bonifica gli scavi erano stati colmati con “materiali frantumati certificati a partire dalla base degli scavi fino alla quota di – 0,40 cm da p.c.. L’orizzonte superficiale (compreso tra – 0,40 cm e p.c.) è stato successivamente completato con materiale da coltivo”. Pertanto si prevedeva la sottoposizione ai test di cessione di cui al D.M. 5 febbraio 1998 dei soli c.d. “riporti storici” presenti sul sito, mai interessati dai precedenti scavi di bonifica.
L’Arpa aveva quindi affermato che: “in caso di materiale che presenti caratteristiche di riporto, esso dovrà essere anche adeguatamente indagato ai sensi dell’art. 41 del D.L. n. 69 del 2013, ed art. 41 L. di conversione n. 98 del 2013, mediante test di cessione svolto ai sensi dell’art. 9 del D.M. 05 febbraio 1998, confrontati con le CSC di tab. 2 in allegato 5 al Titolo V della Parte Quarta del D.Lgs. n. 152 del 2006”.

Quindi il Settore Bonifiche del Comune di Milano aveva autorizzato il Condominio ad eseguire il Piano della Caratterizzazione, “come modificato e integrato durante la fase istruttoria a seguito delle prescrizioni e richieste formulate, riportate nei verbali della Conferenza dei Servizi e nei relativi pareri allegati”, fissando il termine massimo di sei mesi per la presentazione degli esiti della caratterizzazione e dell’eventuale Analisi di Rischio.
Contro tale determinazione del Comune nonché contro il verbale della conferenza e i relativi atti istruttori, il Condominio proponeva il ricorso, chiedendo l’annullamento degli atti impugnati, previa tutela cautelare.

Secondo Il Tribunale
La norma stabilisce che le matrici materiali di riporto devono essere sottoposte a test di cessione (art. 9 D.M. 5.02.1998), ai fini delle metodiche da utilizzare per escludere rischi di contaminazione delle acque sotterranee e, ove conformi ai limiti del test, devono rispettare quanto previsto dalla legislazione in materia di bonifica.
Dal dato letterale, pertanto, si ricava che:
1) i limiti da rispettare in relazione alle acque sotterranee si rinvengono nella Tabella 2 dell’All. 5 al Titolo V del TUA e non già nello stesso DM 5.02.1998;
2) “le matrici materiali di riporto che non siano risultate conformi ai limiti del test di cessione sono fonti di contaminazione”, nel senso che ciò impone di intervenire su tali materiali con le specifiche modalità previste dal citato art. 3, co. 3 (norma speciale), anziché con le procedure ex artt. 242 ss. del TUA (cfr. T.A.R. Toscana n. 558/15);
3) non si può escludere, a priori, la necessità di sottoporre a test di cessione i materiali già collocati nell’area, a seguito del cambio di destinazione d’uso della stessa, per verificarne la compatibilità con la destinazione urbanistica attuale.

La Corte ricostruisce poi la normativa di riferimento per le matrici da riporto ai sensi del Codice Ambiente: con il D.L. n. 2 del 2012 (poi modificato dal D.L. n. 69 del 2013) il legislatore ha stabilito che i materiali di riporto restano sottratti alla disciplina della Parte Quarta del Codice Ambiente se conformi ai limiti dei test di cessione e che in caso contrario tali matrici vanno qualificate come “fonti di contaminazione” e su di esse si deve intervenire per rimuoverle o per eliminare i contaminanti o per mettere in sicurezza i materiali in questione. Ciò significa che per le matrici materiali di riporto vige un regime particolare: quando presentano caratteristiche non conformi ai limiti dei test di cessione esse vengono qualificate “fonti di contaminazione” e come tali devono essere trattate, secondo le modalità specificate nell’art. 3 comma 3 del D.L. n. 2 del 2012.

Pertanto, la qualificazione dei materiali di riporto come “fonti di contaminazione” prevale sulla qualificazione di “matrici ambientali” e impone di intervenire su tali materiali con le specifiche modalità previste dal citato art. 3 comma 3 (norma speciale), anziché con le procedure ex artt. 242 ss. del Codice dell’ambiente.

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Redazione InSic

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