Mobbing e risarcibilità: un commento alla sentenza n. 20774/2018

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Mentre con non poco dispiacere si avvicinava la fine delle tanto desiderate ferie, una sentenza della Corte di Cassazione, la n. 20774/2018 accendeva le speranze di una moltitudine di lavoratori e lavoratrici circa risarcimenti derivanti dal mobbing.
In realtà, visto il tutto con occhio clinico, nulla o poco è cambiato.

La sentenza in questione
I lavoratori vittime di mobbing sul lavoro possono chiedere il risarcimento dei danni psichici, in quanto rientrante tra le c.d. malattie professionali. Infatti, le condotte vessatorie sono considerate malattie indennizzabili dall’INAIL a tutti gli effetti. A stabilirlo è la Corte di Cassazione con la Sentenza n. 20774/2018, che è intervenuta sul tema fornendo una attenta valutazione della condotta di mobbing posta in essere su un dipendente da parte del datore di lavoro. La Suprema Corte, a tal proposito, ricorda che in tali contesti non bisogna tenere in considerazione soltanto del rischio specifico insito nello svolgimento del rapporto di lavoro, ma anche di tutti i rischi specifici impropri ad esso collegato. Il caso riguarda un contenzioso insorto tra l’Inail e l’erede di un uomo vittima di mobbing.

In particolare, il lavoratore, in seguito deceduto nel corso del giudizio di primo grado, lavorava presso una biblioteca di una struttura universitaria. Egli lamentava di subire continui atti vessatori da parte della datrice di lavoro, pertanto il de cuius ha avanzato la richiesta di riconoscimento della natura professionale della malattia. I giudici hanno rigettato la richiesta del lavoratore sia in primo che secondo grado. In particolare, la Corte d’Appello – che confermava le conclusioni a cui era giunto il giudice di primo grado – riteneva non tutelabile nell’ambito dell’assicurazione obbligatoria gestita dall’Inail la malattia derivante non direttamente dalle lavorazioni elencate nell’articolo 1 del D.P.R. 1124/1965, bensì da situazioni di costrittività organizzativa, come il mobbing.
In quell’occasione era stato ribadito come la malattia professionale per essere indennizzabile deve rientrare nell’ambito del rischio assicurato ex artt. 3 e 1, terzo comma del T.U. 1124/1965 (“è obbligatoria l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro delle persone le quali, nelle condizioni previste dal presente titolo, siano addette a macchine mosse non direttamente dalla persona che ne usa, ad apparecchi a pressione, ad apparecchi e impianti elettrici o termici”). Naturalmente il mobbing non fa parte di tale tipologia di situazioni.

Avverso la decisione dei giudici, l’erede del lavoratore deceduto ha proposto ricorso per Cassazione. Gli Ermellini della Suprema Corte hanno totalmente ribaltato i giudizi in primo e secondo grado. La motivazione principale che ha portato la Corte di Cassazione a dare ragione al lavoratore deceduto sta nel fatto che i giudici nelle pronunce precedenti non hanno tenuto conto del vigente concetto di rischio tutelato ex art. 1 del T.U. 1124/1965. In particolare, in tema di assicurazione sociale non rileva solamente il rischio specifico proprio della lavorazione, quanto anche il c.d. “rischio specifico improprio”, ovvero quel rischio che non è strettamente insito nell’atto materiale della prestazione, ma è collegato con la prestazione stessa.
Pertanto, i giudici di merito evidenziano come sia assolutamente fuori luogo seguire la tesi espressa dai giudici di primo e secondo grado secondo i quali sarebbe da escludere che l’assicurazione obbligatoria copra patologie non correlate a rischi considerati specificamente nelle apposite tabelle. Difatti – afferma la sentenza – “nel momento in cui il lavoratore è stato ammesso a provare l’origine professionale di qualsiasi malattia, sono necessariamente venuti meno anche i criteri selettivi del rischio professionale, inteso come rischio specificamente identificato in tabelle”.
Ne deriva che sono indennizzabili tutte le malattie, di natura fisica o psichica, la cui origine sia riconducibile al rischio del lavoro, sia che riguardi la lavorazione, sia che riguardi l’organizzazione del lavoro e le modalità della sua esplicazioni, dovendosi ritenere incongrua una qualsiasi distinzione in tal senso. A ben vedere, infatti, durante lo svolgimento della prestazione lavorativa, il lavoratore è coinvolto in tutte le sue dimensioni; quindi la sottopone a rischi che rilevano sia per la sfera fisica che per quella psichica. Dunque, è lecito ritenere che “ogni forma di tecnopatia che possa ritenersi conseguenza di attività lavorativa risulta assicurata all’INAIL, anche se non è compresa tra le malattie tabellate o tra i rischi tabellati”. Tra queste rientra anche quella derivante da mobbing.

Chiarito innanzitutto che il mobbing non è una malattia ma ne è la causa, e questo è noto da tempo, il problema nasce dalla mancata definizione del mobbing tramite una legge che ne chiarisca i contenuti identificativi.
Ad oggi per definire il mobbing abbiamo una serie di sentenze, spesso in conflitto tra loro, la cui interpretazione richiede non poca esperienza. Una delle ultime, Cassazione civile Sentenza, Sez. Lav., 23/01/2015, n. 1258 definisce: “Ai fini della configurabilità del mobbing lavorativo, devono ravvisarsi da parte del datore di lavoro comportamenti, anche protratti nel tempo, rivelatori, in modo inequivoco, di un’esplicita volontà di quest’ultimo di emarginazione del dipendente, occorrendo, pertanto dedurre e provare la ricorrenza di una pluralità di condotte, anche di diversa natura, tutte dirette (oggettivamente) all’espulsione dal contesto lavorativo, o comunque connotate da un alto tasso di vessatorietà e prevaricazione, nonché sorrette (soggettivamente) da un intento persecutorio e tra loro intrinsecamente collegate dall’unico fine intenzionale di isolare il dipendente.”
In altre parole il lavoratore dovrà imparare a leggere nella testa del suo persecutore l’esplicita volontà, al fine di poter presentare prove certe. Questo è il punto: l’INAIL, come ha fatto sino ad ora, non risarcirà mai danni alla salute da atteggiamenti persecutori se questi non saranno dimostrati tramite una sentenza che condanni il datore di lavoro ma in questo caso sarà il datore di lavoro a dover risarcire.
Quanto a far riconoscere la malattia di origine lavorativa all’INAIL, cosa certamente validissima quale prova da portare in sede di giudizio -come affermo nel mio libro: “Dal mobbing al disagio allo stress correlati al lavoro”– lo sconsiglio vivamente in quanto l’INAIL potrà riconosce la malattia di per sé, ma non la riconoscerà quale derivante dal mobbing per l’impossibilità di effettuare delle giuste indagini sul luogo di lavoro; per cui la parte datoriale dinanzi al giudice si sentirà autorizzata ad affermare: “Ma quale malattia derivante dal mobbing se neanche l’INAIL l’ha riconosciuta”.

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Redazione InSic

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