Torna anche questo mese il FOCUS ACQUE, una rassegna di commenti a sentenze particolarmente significative sull’ inquinamento delle fonti idriche a cura di A. Quaranta (Environmental Risk and crisis manager), che le ha raccolte tutte nell’articolo “Tutela delle acque la complessità della materia e il ruolo giocato dalla giurisprudenza” pubblicato sulla rivista Ambiente&Sicurezza sul Lavoro.
La tutela delle acque nel codice penale: prima parte
In materia di inquinamento ambientale la Suprema Corte è intervenuta innanzitutto per affermare che:
– il delitto di inquinamento ambientale è reato di danno, integrato da un evento di danneggiamento che, nel caso del “deterioramento”, consiste in una riduzione della cosa che ne costituisce oggetto in uno stato tale da diminuirne in modo apprezzabile, il valore o da impedirne anche parzialmente l’uso, ovvero da rendere necessaria, per il ripristino, una attività non agevole, mentre, nel caso della “compromissione”, consiste in uno squilibrio funzionale che attiene alla relazione del bene aggredito con l’uomo e ai bisogni o interessi che il bene medesimo deve soddisfare, e ai fini del sequestro preventivo (nel caso di depuratori) è sufficiente accertare il deterioramento significativo o la compromissione come altamente probabili, desunti dalla natura e dalla durata nel tempo degli scarichi abusivi (Cass.Pen., sentenza n. 52436/2017);
– ai fini della configurabilità del reato di inquinamento ambientale non è richiesta una tendenziale irreversibilità del danno, e di conseguenza le condotte poste in essere successivamente all’iniziale deterioramento o compromissione del bene non costituiscono un “post factum” non punibile, ma integrano invece singoli atti di un’unica azione lesiva che spostano in avanti la cessazione della consumazione, sino a quando la compromissione o il deterioramento diventano irreversibili, o comportano una delle conseguenze tipiche previste dal successivo reato di disastro ambientale.
In ultima analisi, conclude la Corte, “il deterioramento significativo può ritenersi altamente probabile, in considerazione della natura degli scarichi (provenienti da depuratori che non depurano, anzi le acque in uscita sono peggiori delle acque in entrata, come motivatamente accertato dal provvedimento impugnato), della durata degli stessi e dalle misurazioni delle materie inquinanti «notevolmente superiori ai limiti di cui alla tabella 3, allegato 5, del d. lgs. 152/2006″ (Cass. Pen., n. 10515/2017.
Nella sentenza n. 55510/2017 la Corte ha ribadito gli stessi concetti, in una fattispecie relativa ad una fossa Imhoff priva di autorizzazione allo scarico e al trattamento; alla raccolta, gestione e smaltimento di rifiuti liquidi in acque superficiali; al mancato svuotamento della fossa per cinque anni dei rifiuti ivi stoccati, e ai ricettori di reflui urbani recapitanti attraverso tubi in pvc nel letto di un torrente).
L’articolo completo è disponibile sulla rivista Ambiente&Sicurezza sul Lavoro n.3/2018, per gli abbonati.
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