La sentenza n. 37214/2024 della Cassazione ricostruisce la sfera di responsabilità penale sia del Coordinatore per la progettazione (CSP) sia del Coordinatore per l’esecuzione (CSE) in relazione agli infortuni che si verificano in cantiere, partendo dall’individuazione dell’“area di rischio” di loro competenza.
Nell'articolo
Infortunio in cantiere e condanna del Coordinatore per la Sicurezza
La società Alfa s.r.l. affidava alla Beta s.r.l., che a sua volta subappaltava alla Gamma s.r.l., i lavori di costruzione di una palazzina in aderenza a un edificio preesistente.
Per l’elevazione del muro in aderenza si procedeva a effettuare una colata di calcestruzzo. Senonché, la pressione esercitata dalla colata sul muro perimetrale dell’edificio confinante ne causava il cedimento, con conseguente travolgimento della vittima, la quale riportava plurime fratture costali e vertebrali, oltre che diverse contusioni.
Nei giudizi di merito si accertava che il crollo si era verificato perché l’impresa esecutrice aveva sversato la malta cementizia da un’altezza superiore di oltre il doppio al limite prescritto e senza attendere il consolidamento del primo strato.
L’architetta A.A., in qualità di Coordinatore per la sicurezza sia per la progettazione sia per la fase esecutiva, veniva condannata in primo grado per il reato di cui all’art. 590 c.p. (lesioni colpose) aggravato, ai sensi del comma 3 di tale articolo, dalla violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro.
In particolare, i giudici di prime cure contestavano all’imputata:
- in qualità di Coordinatrice per la progettazione, di non aver illustrato nel piano di sicurezza e coordinamento (PSC) le misure di prevenzione relative alle operazioni di realizzazione del muro;
- in qualità di Coordinatrice per l’esecuzione, di non aver verificato che tale lavorazione fosse correttamente eseguita.
La condanna veniva confermata dalla Corte d’Appello di Milano, che richiamava per condivisione le motivazioni della sentenza di primo grado. Avverso tale decisione l’imputata proponeva ricorso in Cassazione.
Per accertare la responsabilità del garante occorre individuare l’area di rischio di sua competenza
Com’è noto, secondo la disciplina del Titolo IV del D.Lgs. 9 aprile 2008 n. 81, Testo Unico di Sicurezza sul Lavoro (T.U.S.L.), il Coordinatore per la sicurezza in fase di progettazione (CSP) e il Coordinatore per la sicurezza in fase esecutiva (CSE) affiancano altri soggetti che sono parimenti chiamati a garantire lo svolgimento in sicurezza dei lavori all’interno dei cantieri temporanei o mobili: il committente, il responsabile dei lavori, nonché i datori di lavoro[1], i dirigenti e i preposti delle imprese esecutrici.
Si assiste quindi a una pluralità di garanti, a fronte della quale l’interprete è chiamato a delimitare la sfera di responsabilità di ciascuno di essi.
Per svolgere tale operazione, la giurisprudenza della Corte di cassazione ha elaborato il criterio dell’“area di rischio”.
In particolare, la Suprema Corte considera che tutti questi soggetti hanno il compito di gestire il medesimo rischio, quello che si verifichino infortuni, il quale, tuttavia, può declinarsi in diversi modi[2].
In merito, una possibile distinzione è quella tra rischi specifici, generici e interferenziali.
Rischi specifici
Secondo l’opinione più condivisa, i primi sono quelli generati da lavorazioni che esigono speciali competenze tecniche e che insistono esclusivamente sui dipendenti dell’impresa che le effettua.
Rischi generici
Si indicano come generici quelli che sono riconoscibili indipendentemente dal possesso di specifiche competenze tecnico-professionali e che insistono su tutti i lavoratori presenti sul luogo di lavoro, in quanto attinenti, ad esempio, alla conformazione del cantiere[3] (si pensi al rischio di caduta dall’alto[4] nei lavori di costruzione di un palazzo).
Rischi interferenziali
Si identificano infine come interferenziali tutti quegli ulteriori rischi che sono generati dalla sovrapposizione delle attività delle diverse imprese che si trovano a operare nello stesso luogo di lavoro[5].
Area di rischio di competenza
A fronte di queste diverse declinazioni del rischio infortuni, secondo i giudici di legittimità “esistono diverse aree di rischio e, parallelamente, distinte sfere di responsabilità”[6]. Ciascuno dei soggetti menzionati può essere infatti chiamato a gestire solo alcune di tali declinazioni del rischio-infortuni e non altre. In altri termini, ogni garante ha un’area del più generale rischio-infortuni da gestire[7], per delimitare la quale occorre esaminare gli obblighi che il T.U.S.L. pone in capo a tale soggetto, individuando quali tipologie di rischio (per quanto qui interessa: se generici, interferenziali oppure specifici) tali obblighi sono diretti a contrastare.
Da tale osservazione consegue che il garante che ha violato i propri obblighi prevenzionistici in tanto può essere ritenuto responsabile per non aver impedito l’infortunio verificatosi in quanto questo accadimento costituisca la concretizzazione di un rischio rientrante nella sua area di competenza.
Pertanto, poiché l’imputata rivestiva la qualifica di Coordinatore per la progettazione e di Coordinatore per l’esecuzione, al fine di accertarne la responsabilità penale, i giudici di legittimità hanno proceduto, prima, a individuare in astratto le aree di rischio di competenza di tali figure esaminando gli obblighi che il D.Lgs. 81/08 pone in capo a loro, e, successivamente, a verificare se in queste rientrasse il rischio che nel caso concreto ha determinato l’infortunio, ossia quello che la colata di calcestruzzo causasse il crollo del muro confinante.
Prima di proseguire occorre precisare che il fatto che l’infortunio costituisca la concretizzazione di un rischio rientrante nella sfera di competenza del garante è un presupposto necessario ma non sufficiente per affermare la sua responsabilità penale, posto che occorre sempre accertare la sussistenza, sia del nesso di causalità tra la sua condotta irrispettosa degli obblighi di sicurezza e tale evento, sia dell’elemento soggettivo (verosimilmente colposo). Tali aspetti non sono trattati nel presente contributo, che affronta solo il tema dell’individuazione dell’area di rischio.
I Coordinatori sono garanti innanzitutto (ma non solo) dei rischi interferenziali
Ai sensi dell’art. 90 co. 4 e 5 del D.Lgs. 81/2008 i Coordinatori devono essere nominati dal committente o dal responsabile dei lavori quando sia prevista la presenza in cantiere di almeno due imprese esecutrici, anche se queste non si trovano a operare contemporaneamente e anche nel caso in cui i lavori fossero inizialmente affidati a una sola impresa e poi subappaltati, come avvenuto nel caso di specie.
Come emerge da tali disposizioni, l’esigenza di prevedere queste due ulteriori figure di garanti deriva dal fatto che la presenza di più imprese nel medesimo luogo di lavoro genera, come sopra accennato, rischi interferenziali, che si aggiungono a quelli inerenti alle singole lavorazioni e la cui gestione richiede un’opera di coordinamento tra i diversi datori di lavoro coinvolti, affidata proprio ai Coordinatori. Tuttavia, come si vedrà a breve, l’area di rischio di loro competenza non sembra comprendere esclusivamente tali rischi.
L’area di rischio di competenza del CSP non si estende ai rischi specifici
Gli obblighi del CSP, che dev’essere nominato contestualmente all’affidamento dell’incarico di progettazione, sono indicati all’art. 91 del D.Lgs. 81/2008. Tra questi, il più rilevante (e anche quello la cui violazione è stata contestata all’imputata) è quello di redigere il piano di sicurezza e coordinamento (PSC), il cui contenuto è dettagliatamente prescritto dall’art. 100 e dall’Allegato XV del D.Lgs. 81/2008.
Quest’ultimo prevede che il CSP debba effettuare “l’analisi dei rischi presenti, con riferimento all’area e alla organizzazione del cantiere, alle lavorazioni e alle loro interferenze”, sulla base della quale egli deve poi individuare “le scelte progettuali ed organizzative, le procedure e misure preventive e protettive[8] richieste per eliminare o ridurre al minimo” tali rischi. Tanto la loro valutazione, quanto le misure individuate per gestirli adeguatamente devono risultare nel PSC. Sono invece esplicitamente esclusi dall’analisi che il CSP è chiamato a compiere “i rischi specifici propri dell’attività” delle singole imprese esecutrici[9].
Ne consegue che il CSP può essere ritenuto penalmente responsabile a titolo omissivo per l’infortunio verificatosi in cantiere a condizione che tale evento sia la concretizzazione di un rischio generico o interferenziale che egli non ha valutato o per gestire il quale non ha individuato nel PSC le misure di sicurezza idonee; fermo restando che occorre sempre verificare anche la sussistenza dell’elemento soggettivo[10].
Se invece l’infortunio è la risultante di un rischio specifico, il CSP non può essere chiamato a risponderne in ragione del fatto di non averlo preso in considerazione nel Piano di Sicurezza.
In sostanza, da tali disposizioni si può evincere che il CSP è chiamato a occuparsi dei rischi interferenziali e di quelli generici mentre esorbitano dalla sua area di rischio quelli specifici, propri dell’attività della singola impresa, che rientrano, invece, nella sfera di competenza del datore di lavoro.
Tale impostazione è confermata dalla più recente giurisprudenza di legittimità. Su questa linea, si colloca anche la pronuncia in esame, ove si afferma che non si può “rimproverare al coordinatore di non aver ribadito nel PSC una regola cautelare concernente un rischio specifico”.
In un recente caso analogo[11], sul presupposto che “si è trattato di una situazione […] di gestione di un rischio specifico”, la Corte di cassazione ha escluso la responsabilità del CSP in relazione all’infortunio mortale di un operaio, il quale, durante il trasporto di due lastre in latero-cemento, veniva da queste travolto.
L’estensione (controversa) dell’area di rischio del CSE ai rischi generici e specifici
Molto più controversa è l’estensione dell’area di rischio di competenza del CSE, alla cui ricostruzione è dedicata gran parte della motivazione della sentenza in esame.
Gli obblighi di tale soggetto, che dev’essere nominato prima dell’affidamento dei lavori, sono indicati dall’art. 92 del D.Lgs. 81/2008. In sintesi, egli ha innanzitutto il dovere di assicurare che il PSC sia efficacemente attuato durante l’esecuzione dei lavori, anche verificando che i Piani Operativi di Sicurezza (POS) delle imprese esecutrici siano coerenti con esso e curando il coordinamento tra i datori di lavoro; inoltre deve monitorare l’adeguatezza del PSC alla luce dell’avanzamento dei lavori e, se del caso, aggiornarlo.
Se gli obblighi del CSE fossero solo quelli menzionati, si potrebbe sostenere, senza troppe difficoltà, che l’area di rischio di sua competenza coincida con quella del CSP: quest’ultimo redige il PSC, individuando i rischi generici e interferenziali presenti in cantiere e le misure per eliminarli o ridurli al minimo, il primo ne garantisce l’attuazione.
Senonchè, l’art. 92 del D.Lgs. 81/2008 prevede altresì che il CSE:
- da un lato, debba segnalare al committente o al responsabile dei lavori le inosservanze alle disposizioni degli articoli 94, 95, 96 e 97, i quali contengono anche disposizioni riferite esclusivamente all’attività dei singoli datori di lavoro[12],
- e, dall’altro, che debba sospendere, “in caso di pericolo grave e imminente, direttamente riscontrato, le singole lavorazioni” (art. 92 lett. f).
Sulla base di queste ultime due disposizioni, fino a non molti anni fa la Corte di cassazione non esitava a individuare in capo al CSE una posizione di garanzia ampissima, ritenendo che il suo obbligo di impedire gli infortuni si riferisse a tutti i rischi: generici, specifici e interferenziali.
Dal dovere di sospendere i lavori in caso di pericolo grave e imminente “direttamente riscontrato”, si ricavava che il CSE fosse tenuto a “una attenta e costante opera di vigilanza”[13], da “esercitarsi in maniera scrupolosa”, riguardante “tutte le lavorazioni in atto, specie quelle che pongono maggiormente a rischio l’incolumità degli operatori”[14] e, di conseguenza, che egli potesse essere responsabile, a titolo di culpa in vigilando, per qualsiasi violazione della normativa antinfortunistica[15], anche se inerente alla gestione di un rischio specifico.
Questa impostazione è stata severamente criticata da parte alcuni Autori[16], i quali hanno evidenziato come in tal modo si finisse per attribuire al CSE la medesima posizione di garanzia rivestita dal datore di lavoro, realizzando così una sovrapposizione tra queste due figure, del tutto incoerente con la struttura del Titolo IV del D.Lgs. 81/2008.
Secondo questa dottrina, dal fatto che il CSE debba essere presente solo quando in cantiere si verifichi la presenza di più imprese, a prescindere dalla complessità dei lavori da effettuare, si ricava che tale figura è stata pensata dal legislatore come soggetto chiamato a garantire la sicurezza rispetto ai rischi interferenziali e non come ulteriore controllore o collaboratore del datore di lavoro. Pertanto, l’area di rischio di sua competenza andrebbe circoscritta a tali rischi.
Recependo tali critiche, la giurisprudenza maggioritaria ha successivamente mutato il proprio orientamento per sposare quest’ultima tesi. È stato affermato che la “vigilanza del coordinatore per l’esecuzione viene in rilievo laddove si sia in presenza di un rischio interferenziale” poiché “pare evidente che la norma in questione [l’art. 92 T.U.S.L.] delimiti l’area ‘ordinaria’ di garanzia del coordinatore per l’esecuzione alle fasi in cui si concretizzi un rischio interferenziale” [17]. Di qui i giudici ricavano che la vigilanza che il CSE è tenuto a svolgere sull’esecuzione dei lavori si configura come “alta” o “di secondo livello”, nel senso che “si esplica prevalentemente mediante procedure e non poteri/doveri di intervento immediato”[18] e non richiede una sorveglianza continua e quotidiana sui lavori; pertanto, la presenza in cantiere del CSE può ben essere limitata ai momenti che appaiono più critici in ragione delle sovrapposizioni tra le attivià delle imprese presenti[19]. Così, per verificare se il CSE ha adempiuto ai propri obblighi di sicurezza, il giudice “non dovrà ricercare i segni di una presenza diuturna, ma le tracce di azioni di coordinamento, di informazione, di verifica, e la loro adeguatezza sostanziale”[20].
Ricostruiti in questi termini i compiti del CSE, l’obbligo di cui alla lett. f) dell’art. 92 del D.Lgs. 81/08 non può che costituire una norma di chiusura che fa riferimento a situazioni straordinarie, caratterizzate da gravi, diffuse e macroscopiche violazioni delle norme di sicurezza da cui derivi un pericolo grave e imminente, che egli riscontri durante l’esecuzione delle proprie verifiche periodiche[21].
Tale impostazione, senz’altro più convincente della prima, è stata confermata in più occasioni[22].
Alcuni[23] tuttavia ritengono eccessivamente restrittivo limitare l’area di rischio “ordinaria” del CSE ai soli rischi interferenziali, senza comprendervi anche quelli generici, posto che tale figura ha l’obbligo di garantire l’attuazione del PSC, il quale, come sopra illustrato, riguarda entrambe tali tipologie di rischio.
Queste critiche paiono recepite da alcune delle più recenti pronunce di legittimità, nelle quali si precisa che “i suoi [del CSE] compiti di alta vigilanza non sono limitati al governo del solo rischio interferenziale, essendo tenuto al generale controllo sulla corretta osservanza, da parte delle imprese, delle disposizioni contenute nel piano di sicurezza e di coordinamento”[24].
A tale orientamento pare aderire la decisione in esame, nella parte in cui i giudici affermano che il dovere del CSE è quello di provvedere “alla sicura organizzazione complessiva del cantiere, con ciò intendendosi la conformazione dell’opera, dell’area di cantiere e della sequenza delle lavorazioni – tenuto conto anche, ma non esclusivamente del rischio da interferenze – alle necessità di sicurezza dei lavoratori”.
In conclusione, come ricostruita anche dalla sentenza in commento, l’area di rischio di competenza del CSE comprende i rischi sia generici sia interferenziali, mentre non si estende a quelli specifici, se non in situazioni straordinarie, quando le imprese esecutrici commettano violazioni macroscopiche della normativa antinfortunistica, le quali generino un pericolo grave e imminente che sia suscettibile di essere riscontrato attraverso una viglilanza (non continuativa sulle singole lavorazioni ma) periodica e di secondo livello, qual è quella che è tenuto a svolgere tale soggetto.
Le conclusioni della Corte sulla responsabilità del Coordinatore per la Sicurezza
Ricostruite in astratto le sfere di responsabilità del CSP e del CSE la Corte è quindi passata a verificare se nel caso concreto l’infortunio fosse addebitabile all’imputata che rivestiva tali qualifiche.
I giudici hanno innanzitutto evidenziato che il rischio di crollo del muro a causa della colata di calcestruzzo fosse da qualificare come specifico, in quanto trattavasi di “un intervento settoriale che non presentava profili di interazione”.
Ciò ha portato, alla luce di quanto sopra osservato, a escludere la responsabilità dell’imputata in qualità di CSP, in ragione del fatto che, contrariamente a quanto avevano affermato i giudici di merito, “la prescrizione atta a prevenire il crollo, in quanto attinente a un rischio specifico, non necessitava di alcuna previsione di coordinamento”.
Con riferimento alla fase esecutiva, i giudici sottolineano altresì che si era trattato di un “accidente contingente, scaturito estemporaneamente dallo sviluppo dei lavori” e che si era verificato a causa di una violazione – lo sversamento della malta cementizia effettuato da un’altezza superiore al limite prescritto e senza attendere il consolidamento del primo strato – che non poteva certo ritenersi macroscopica e che avrebbe potuto essere percepita solamente attraverso un controllo puntuale, momento per momento, sull’attività lavorativa che non poteva essere preteso dall’imputata in qualità di CSE. Peraltro, “nell’esecuzione delle gettate di cemento avvenute in precedenza, in corrispondenza della medesima parete, non si erano verificati inconvenienti che potessero destare allarme e più frequenti e specifiche verifiche da parte del coordinatore nel corso dell’esecuzione”. Pertanto, l’infortunio costituiva la concretizzazione di un rischio (specifico) che non era in alcun modo riconducibile all’area di competenza, né ordinaria né straordinaria, del CSE.
In definitiva, poiché il crollo che aveva causato l’infortunio alla vittima si era verificato “a causa di errori […] che esulavano dall’area di rischio” di competenza del CSP e del CSE, la Suprema Corte ha annullato senza rinvio la pronuncia di condanna di secondo grado per non aver l’imputata commesso il fatto.
Note al testo
[1] Tra questi, particolari obblighi di sicurezza sono previsti dagli artt. 97 e 101 T.U.S.L. in capo al datore di lavoro dell’impresa affidataria, ossia dell’“impresa titolare del contratto di appalto con il committente che, nell’esecuzione dell’opera appaltata, può avvalersi di imprese subappaltatrici o di lavoratori autonomi”.
[2] Cass., Sez. Un. 24 aprile 2014 n. 38343, Espenhahn: “il contesto della sicurezza del lavoro fa emergere con particolare chiarezza la centralità dell’idea di rischio: tutto il sistema è conformato per governare l’immane rischio, gli indicibili pericoli, connessi al fatto che l’uomo si fa ingranaggio fragile di un apparato gravido di pericoli. Il rischio è categorialmente unico ma, naturalmente, si declina concretamente in diverse guise in relazione alle differenti situazioni lavorative”.
[3] D. CASTRONOVO, F. CURI, S. TORDINI CAGLI, V. TORRE, V. VALENTINI, Sicurezza sul Lavoro Profili Penali, Torino, Giappichelli, 2021, seconda edizione, pag. 426. V. anche, sulla nozione di rischio specifico, Cass. pen. 20 settembre 2019 n. 38845: “il committente è esonerato dagli obblighi in materia antinfortunistica soltanto relativamente alle precauzioni che richiedono una specifica competenza tecnica nelle procedure da adottare in determinate lavorazioni, nell’utilizzazione di speciali tecniche o nell’uso di determinate macchine, di esclusiva competenza dell’appaltatore”.
[4] Cass. pen. 1 giugno 2016 n. 23171 “si consideri […] la natura del rischio all’esame, quello cioè di caduta dall’alto, immediatamente percepibile e oggetto di un potere di controllo del tutto generico”.
[5] V. in merito Cass. pen. 11 aprile 2023 n. 34340 (con nota di R. GUARINIELLO in Igiene & Sicurezza del Lavoro, n. 10, 1 ottobre 2023, p. 533), per la quale una definizione efficace di “rischio interferenziale” può rinvenirsi, non nel t.u.s.l., che non la fornisce, ma nella Determinazione n. 3/2008 dell’Autorità per la Vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, ove tale concetto è inteso come “circostanza in cui si verifica un contatto rischioso tra il personale del committente e quello dell’appaltatore o tra il personale di imprese diverse che operano nella stessa sede aziendale con contratti differenti”.
[6] Cass. Sez. Un. 24 aprile 2014 n. 38343, Espenhahn.
[7] Per un’applicazione, v. con riferimento all’area di rischio del datore di lavoro, del dirigente e del preposto, la ricostruzione di Cass. pen. 9 maggio 2017 n. 22606 per cui è “generalmente riconducibile alla sfera di responsabilità del preposto l’infortunio occasionato dalla concreta esecuzione della prestazione lavorativa, a quella del dirigente il sinistro riconducibile al dettaglio dell’organizzazione dell’attività lavorativa e a quella del datore di lavoro, invece, l’incidente derivante da scelte gestionali di fondo”.
[8] In particolare, in giurisprudenza si è distinto tra misure di coordinamento, che consistono nel “collegare razionalmente le varie fasi dell’attività in corso, in modo da evitare disaccordi, sovrapposizioni, intralci che possono accrescere notevolmente i pericoli per tutti coloro che operano nel medesimo ambiente”, e misure di cooperazione, che, invece, consistono in “qualcosa in più, perché [cooperare] vuol dire contribuire attivamente, dall’una e dall’altra parte, a predisporre ed applicare le misure di prevenzione e protezione necessarie” (Cass. pen. 3 luglio 2002 n. 31459; ripresa da Cass. pen. 09 luglio 2009 n. 28197).
[9] All. XV, paragrafo 2.2.3 t.u.s.l.
[10] In particolare, ai fini della sussitenza della colpa, sarà necessario appurare, con una valutazione ex ante, se si trattasse di un rischio riconoscibile e che quindi “era doveroso assumere come oggetto di una specifica valutazione per prevenirlo e tale rischio sia stato trascurato” (D. CASTRONOVO, F. CURI, S. TORDINI CAGLI, V. TORRE, V. VALENTINI, op. cit. pag. 47)
[11] Cass. pen. 6 giugno 2023 n. 24165 in R. GUARINIELLO, Il T.U. Sicurezza sul lavoro commentato con la giurisprudenza, Milano, Wolters Kluwer, 2024, quattordicesima ed, pag 1195.
[12] Si pensi ad es. all’art. 95 che pone obblighi in capo ai datori di lavoro “ciascuno per la parte di competenza”.
[13] Cass. pen. 26 ottobre 2011 n. 46820, che nel condannare il CSE, aveva affermato che “il profilo di responsabilità a carico del CSE è stato invece correttamente individuato nella apprezzata carenza organizzativa addebitale all’imputato che, nella sua qualità di coordinatore per l’esecuzione dei lavori, aveva omesso di verificare, attraverso una attenta e costante opera di vigilanza, l’eventuale sussistenza di obiettive situazioni di pericolo nel cantiere, quale l’utilizzo di un ascensore non ancora collaudato ed in corso di installazione. La puntuale osservanza di tale obbligo avrebbe all’evidenza consentito di rilevare l’uso improprio dell’ascensore”. V. anche: Cass. pen. 15 maggio 2008 n. 19492; Cass. pen. 24 aprile 2009 n. 17631.
[14] Cass. pen. 4 dicembre 2013 n. 15484.
[15] Cass. pen. 9 luglio 2008 n. 38002, che, nel condannare il CSE, è ferma nel respingere la tesi difensiva, secondo cui “il coordinatore non sarebbe colui dal quale si può esigere una funzione di quotidiano e costante presidio del cantiere e, di conseguenza, addebitare la culpa in vigilando per qualsiasi violazione che invece è da riferire ai datori di lavoro, dirigenti e preposti”.
[16] V. tra gli altri: P. SOPRANI, Sicurezza nei cantieri temporanei e mobili: le modifiche al titolo IV del Testo Unico, in Igiene & sicurezza del lavoro n. 10 del 2009, pag. 567 ss.;per una ricostruzione degli orientamenti dottrinali: G. PIPESCHI La responsabilità nei cantieri, in G. NATULLO (a cura di), Salute e sicurezza sul lavoro, Milano, Utet, 2015, pagg. 930 ss.; oltre che C. SASSI, Il sottosistema del Titolo IV, in L. MIANI e F. TOFFOLETTO (a cura di), Reati sul lavoro, Torino, Giappichelli, 2019, pagg. 143-145.
[17] Cass. pen. 4 luglio 2016 n. 27165.
[18] Cass. pen. 18 aprile 2023 n. 16305.
[19] Secondo alcuni autori, che la vigilanza richiesta al CSE sia meno stringente e di “secondo livello” rispetto a quella che spetta al datore di lavoro, sarebbe dimostrato altresì dal fatto che nella redazione del T.U.S.L. il legislatore abbia sostituito il verbo “assicurare”, utilizzato nel D. Lgs. 494 del 1996, con il meno impegnativo “verificare”, in riferimento all’applicazione, da parte delle imprese esecutrici e dei lavoratori autonomi, delle disposizioni contenute nel piano di sicurezza e di coordinamento. Così G. MORGANTE, Il coordinatore per l’esecuzione: fino a quando (e a quanto) risponde?, in Giurisprudenza italiana, maggio 2015, pagg.1228 ss..
[20] Ancora, Cass. pen. 4 luglio 2016 n. 27165.
[21] V. Cass. pen. 20 febbraio 2024 n. 7414, che ha ritenuto responsabile il CSE sul presupposto che “a prescindere dal dovere-potere di controllo del quale il coordinatore per la sicurezza è garante nell’area del rischio interferenziale, fosse addebitabile allo stesso la violazione dell’obbligo previsto dalla legge di emanare l’ordine di sospensione per contrastare una situazione di pericolo grave e imminente”.
[22] Di recente Cass. pen. 31 maggio 2023 n. 23725; Cass. pen. 2 settembre 2022 n. 32233.
[23] R. GUARINIELLO, Op. cit., pag. 1198-1199.
[24] Cass. pen. 6 aprile 2023 n. 30167.
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