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Dal DL Fiscale alla modifica del Testo Unico di Sicurezza: occorrerà rimetter mano …?

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In questa riflessione, Paolo Gentile, ergonomo, affronta alcune questioni aperte sulla possibile revisione del Testo Unico di Sicurezza, a partire dalle modifiche apportate al DL FISCALE recentemente convertito, passando dai recenti fatti di cronaca nera legati alle morti sul lavoro. La riflessione si posta anche sui risultati della rivendicazione sindacale in materia di sicurezza negli ultimi anni, lo sviluppo incompleto del modello partecipativo nelle imprese: i suoi obiettivi raggiunti, quelli mancati o mancanti e, infine, il ruolo che in questo quadro può giocare il RLS in azienda.

L’emergenza (?)di salute e sicurezza sul lavoro

Ho già avuto modo di parlare del lavoro debole in un mio precedente articolo “La solitudine dei RLS, indagine sugli appalti della sanità romana”, apparso nel numero di ottobre 2021, della rivista Ambiente&Sicurezza sul Lavoro.

Riprendo l’argomento per entrare nel merito del dibattito che si è innescato a partire dal D.L.21 ottobre 2021, n. 146, il Decreto Fiscale (recentemente convertito).

L’elevato numero di infortuni mortali sul lavoro (e le malattie professionali che vengono contratte dai lavoratori) ci accompagnano quotidianamente e sembrano essere immutabili, sempre uguali a se stessi nei titoli dei giornali:

UN EDILE CADE DAI PONTEGGI DEL CANTIERE…, UN AGRICOLTORE RIMANE SCHIACCIATO DAL TRATTORE CHE SI RIBALTA…, UN OPERAIO MUORE PER LE ESALAZIONI MENTRE PULISCE UN CISTERNA E INSIEME A LUI MUOIONO I COLLEGHI CHE TENTANO DI SALVARLO…, RIMANE IMPIGLITO ALLA MACCHINA CHE LO UCCIDE, ERA STATA TOLTA LA SICUREZZA…, BRACCIANTE INVESTITO SULLA PROVINCIALE MENTRE IN BICICLETTA SI RECA AL LAVORO…

Notizie quotidiane che ci lasciano un senso di impotenza e frustrazione.

Sulla spinta emotiva di questo sentimento di frustrazione e impotenza, non un “emergenza”, purtroppo una triste “normalità” che ci trasciniamo dietro da troppo tempo, il governo è intervenuto con un decreto legge, il D.L.21 ottobre 2021, n. 146 che modifica il D.Lgs.81/08.

Il D.Lgs. n.81/2008 va applicato, non cambiato

Prima considerazione: da tempo, forse da subito dopo la sua approvazione, c’è chi vorrebbe, o ha tentato di cambiare il D.Lgs.81/08, senza che questo sia mai stato completamente applicato.

Il D.Lgs.81/08 non va cambiato, va applicato. Va applicato soprattutto in quella vasta area di “lavoro debole” che riguarda le piccole imprese, gli appalti e i subappalti, i lavoratori autonomi e le partite IVA, il lavoro precario e il lavoro nero.

Tasso infortuni sul lavoro: dal dato alla statistica

Un dossier dal titolo “Testo Unico e Microimprese” della Camera di Commercio di Milano, ci rivela che mentre nelle aziende di tipo industriale il tasso degli infortuni è intorno al 30 per mille, nelle imprese di tipo artigiano il valore sale al 40 per mille, con punte, per le aziende più piccole, che superano il 60 per mille. Nel settore del legno mediamente si registrano 58 infortuni indennizzati ogni 1000 addetti del settore artigiano ma la cifra sale a 77  su mille se si considerano solo quelle che hanno meno di 16 addetti.

Dati confermati dalle statistiche (ad es. nel periodo 2000-2005 nelle aziende fino a nove addetti dove lavorano poco più del 40% dei lavoratori sono avvenuti più dell’85% degli infortuni mortali) e da una considerazione dell’ex ministro Tremonti secondo il quale la sicurezza sarebbe un lusso che soprattutto le piccole aziende non possono permettersi.

Quando si viola una norma di sicurezza sul lavoro?

Ogni norma è destinata ad essere violata, alcune sono violate da piccole minoranze che delinquono per un proprio tornaconto, altre sono violate da un maggior numero di persone che sottovalutano i danni che possono causare con il loro comportamento, violate a causa di una cultura che non ha ancora digerito quelle norme.

Ricordate l’introduzione delle cinture di sicurezza sulle auto, l’uso del casco per le due ruote, o il divieto di fumo nei locali pubblici?

Una norma è efficace quando si è in grado di reprimere chi delinque e quando sa cogliere lo spirito del tempo, ovvero quando la cultura di quella società comprende quella necessità.

La repressione non è una soluzione

La soluzione non sta quindi solo nel delegare il problema alla repressione, ad un aumento delle ispezioni, ad Enti che negli ultimi decenni sono stati depauperati nelle risorse, pensando in questo modo di contribuire a risanare i conti pubblici, Enti che ora necessiterebbero di anni di impegno e finanziamenti prima di essere all’altezza del loro compito.

Sarebbe troppo semplice, la repressione è solo un aspetto di una realtà molto più complessa.

Pensare di risolvere il problema con le ispezioni e i controlli (pure necessari) significa nel migliore dei casi, rassegnarsi e rimandare la soluzione del problema.

La sottovalutazione del rischio

In questi giorni ho dovuto ricorrere a dei pittori per rinnovare il colore alle pareti della mia casa, e dovendo passare un prodotto antimuffa, nocivo se inalato, ho acquistato delle mascherine che ho consegnato ai pittori, raccomandando di usarle ed arieggiare la stanza durante l’uso del prodotto.

La loro prima reazione è stata: “non servono, sono trenta anni che lo utilizziamo!”

Per ogni infortunio, ogni malattia professionale, c’è una sottovalutazione del rischio da parte del datore di lavoro che non prende le opportune precauzioni e da parte del lavoratore che accetta di lavorare esponendosi al rischio: “… A me non accade sono anni che faccio questo lavoro… Tranquillo io sto attento, non mi può accadere… Ragazzi ho tolto la sicurezza fate attenzione… Siamo in ritardo accelera… “

La soluzione non è un problema di repressione, almeno non è solo un problema di repressione.

Sicurezza sul lavoro e ruolo della rivendicazione sindacale

Scrivevo nella prefazione di “Osservare e interpretare il lavoro attraverso l’esperienza dei lavoratori”[1]: “Non v’è dubbio che la storia sindacale, nel nostro paese, abbia influenzato la normativa che prenderà avvio alla fine del secolo, se nel 1985, con un decennio d’anticipo sul D.Lgs.626, Renzo Raimondi poteva scrivere “è forse anche utile ricordare che in Italia, a differenza di altri paesi industriali, i miglioramenti nelle condizioni di lavoro si sono determinati non tanto per  l’intervento legislativo e degli organi di controllo pubblico quanto piuttosto come risultato dell’intensa dinamica contrattuale che ha interessato l’intero tessuto industriale.

Alcune linee guida, molto diverse da quelle del passato e da quelle di altri paesi come, ad esempio, quelle del rifiuto della monetizzazione della salute, della non delega, del ruolo centrale del gruppo omogeneo dei lavoratori nell’analisi e validazione dell’ambiente, hanno diretto l’azione sindacale in materia durante tutti gli anni ‘70”.[2]

La crisi sindacale degli anni ‘90

Negli anni ’80 la crisi dell’unità sindacale, la ristrutturazione e l’automazione industriale con i suoi problemi occupazionali, faranno affievolire l’attenzione dei lavoratori all’ambiente di lavoro. Dovranno arrivare, a partire dagli anni ’90, le norme legislative a porre nuovamente all’ordine del giorno le tematiche della sicurezza sul lavoro.   

Va riconosciuto che la normativa europea, da cui promana l’attuale legislazione italiana, si è per un verso contraddistinta per un approccio “partecipativo” mentre per altro verso ha tendenzialmente “messo nell’angolo” la contrattazione collettiva[3], ci si è distratti, rilassati concentrati sui nuovi problemi, su una globalizzazione mal governata, sulle ricette troppo semplici del neo-liberismo, che hanno sedotto anche una parte della sinistra, in difficoltà a confrontarsi con i fenomeni di esternalizzazione delle attività di supporto alle produzioni, di delocalizzazione, di precarizzazione del lavoro.

L’Approccio partecipativo mai realizzato

L’approccio partecipativo della 626 prima e dell’81 poi è rimasto un auspicio non realizzato. Ci aiuta a comprendere questo concetto una intervista del 2006 che Diego Alhaique ha realizzato con Giovanni Berlinguer, uno dei protagonisti dal punto di vista politico e scientifico di quella stagione di lotte per conquistare il diritto alla salute e sicurezza dei lavoratori.

Negli anni Sessanta e Settanta l’Italia è stato il paese che ha avuto la stagione più ricca di lotte sindacali e di sostegno popolare, ma anche di mobilitazione dei sindacati, per garantire la salute e la sicurezza dei lavoratori, con la parola d’ordine: la saluta non si vende. … C’è stata negli anni Ottanta (e novanta) la stagione dei regolamenti, che ha sostituito quella dei movimenti, delle lotte e delle conquiste. Ad esempio, il decreto 626 e altri strumenti dell’UE riguardanti singole lavorazioni, rischi specifici ecc., hanno introdotto giustamente un sistema di regole per le aziende ma forse hanno fatto perdere l’anima alla lotta per la prevenzione. Per le aziende il decreto ha significato più un modo di porsi in regola, al riparo da sanzioni, anche con molti vantaggi, che non il seguire e il prevenire la condizione reale della produzione e lo stato di salute e di sicurezza delle singole persone. Queste leggi, cioè, sono valse più a prevenire i guai aziendali che non le malattie, e forse bisogna ritornare su questo strumento per renderlo più partecipativo[4]

Proprio lo smantellamento dei Consigli di fabbrica e la rottura dell’unità sindacale, sono stati tra le cause che hanno fatto smarrire l’anima delle lotte per la prevenzione, che indica Berlinguer il quale suggerisce che occorrerà rimetter mano alla legislazione per restituirle quell’anima.

Il Testo unico di Sicurezza: l’approccio partecipativo che manca

Nel 2008 si è rimessa mano alla legislazione, è arrivato il Testo Unico. Periodicamente si parla di modificare il D.Lgs.81/08, che in realtà delinea un vero e proprio sistema istituzionale di organismi deputati alla elaborazione ed applicazione delle misure di prevenzione e protezione. Un ruolo fondamentale è attribuito alla Commissione consultiva permanente per la salute e sicurezza sul lavoro nella quale sono presenti rappresentanti delle Amministrazioni centrali, delle Regioni, delle parti sociali, esperti in medicina del lavoro, igiene industriale e impiantistica industriale e rappresentanti dell’Anmil.

Ma, la partecipazione è ancora la grande assente dal dibattito.

Come promuovere una cultura della sicurezza partecipata? Possibili soluzioni

Per incentivare la partecipazione occorre un impegno di tutti i soggetti interessati, creare una cultura della sicurezza condivisa. Le istituzioni oltre a controllare e reprimere i comportamenti fuori norma dovrebbero supportare le aziende nell’individuare una corretta organizzazione del lavoro e nella formazione dei lavoratori:

  • L’INAIL ha un importante archivio contenente tutte le denunce di infortuni sul lavoro e di malattie professionali denunciate, con i dati relativi alle tipologie di imprese, alle dinamiche con le quali si verificano, le carenze presenti sul luogo di lavoro dove questi si verificano. Questi dati sarebbero di importanza fondamentale se potessero essere utilizzati all’interno dei Documenti di Valutazione dei Rischi, nella formazione dei lavoratori, dei preposti e dirigenti, degli RLS.
  • Soprattutto nelle piccole imprese, che spesso non hanno le risorse adeguate, l’INAIL potrebbe fornire un Documento di Valutazione dei Rischi su misura, confezionato dal proprio data-base, che il datore di lavoro dovrebbe solo adattare alle proprie caratteristiche particolari.
  • I vigili del fuoco potrebbero fornire consulenza e importanti suggerimenti per adeguare le (piccole) aziende alle norme antincendio, e procedere con la repressione degli illeciti solo dopo aver verificato che le aziende non hanno recepito la propria consulenza.
  • La formazione prevista nel D.Lgs.81/08 dovrebbe essere resa facilmente fruibile anche attraverso l’utilizzo dei fondi interprofessionali almeno per le aziende di minori dimensioni, con minori risorse.
  • Salute e sicurezza sul lavoro, dovrebbe essere materia di studio già nelle scuole superiori.

Il ruolo degli RLS nel modello partecipato alla sicurezza

Il D.Lgs. 81/08 indica nella figura degli RLS e degli RLST la via per realizzare la partecipazione dei lavoratori alla difesa della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro.

Il Testo Unico prescrive che la Valutazione dei Rischi deve imperniarsi sulla partecipazione effettiva dei lavoratori attraverso un processo di coinvolgimento dei lavoratori e degli RLS, prevede che il Datore di lavoro debba fornire agli RLS la formazione adeguata e comunicarne il nominativo all’INAIL.

Il RLS è una figura importante per il diritto alla SSL e rappresenta un’importante criticità, per le organizzazioni sindacali, che in molte realtà non sia effettivamente presente un RLS o in alternativa un RLST.

Quali sono gli ostacoli alla partecipazione dei RLS?

Nel citato articolo dell’ottobre 2021 scrivevo che proprio sul versante della partecipazione dei RLS si sono verificate difficoltà di applicazione della legislazione. Il coinvolgimento (previsto nel D.Lgs.81/08) dei lavoratori e dei loro rappresentanti, è stato spesso considerato un vincolo o un impedimento per le imprese, di cui bisognava liberarsi, e su questo aspetto si riscontrano i maggiori ritardi nell’applicazione del “testo unico”. Il coinvolgimento dei RLS, là dove c’è stato, è stato (tranne lodevoli eccezioni) considerato dal DdL come una semplice forma di acquisizione del consenso a scelte unilaterali dell’impresa.

Le aziende che non hanno un loro RLS (che non hanno comunicato il nominativo del proprio RLS all’INAIL) dovrebbero partecipare ad un fondo per finanziare l’istituzione degli RLST, indicazione questa ampiamente disattesa.

È mancato un impegno delle istituzioni e del sindacato alla realizzazione e al coordinamento di una vera e propria rete di RLS/RLST, che metta insieme i rappresentanti delle aziende forti e quelli delle aziende deboli.

A volte è mancata la responsabilità del DdL nei confronti di tutti i lavoratori che operano all’interno dei propri spazi, siano essi dipendenti di aziende appaltatrici, lavoratori autonomi, liberi professionisti. Spesso è una responsabilità distratta verso quel lavoro debole che per lavorare è disposto a tagliare il proprio diritto alla salute e sicurezza sul lavoro.

Solo in presenza di un forte sostegno alla partecipazione, e di una cultura condivisa della salute e sicurezza sul lavoro si può rivendicare che le istituzioni preposte, l’INL e gli SPreSAL (ciascuno secondo le proprie competenze e responsabilità) siano in grado di intervenire tempestivamente. Ma per questo occorre contrastare ed invertire le politiche pauperiste degli ultimi 30 anni che hanno ridotto ovunque il personale adibito ai controlli ispettivi, rendendole incapaci di far fronte alle esigenze del territorio.

Serve una modifica al Testo Unico di Sicurezza?

Forse occorrerà rimetter mano al Testo Unico, alcune modifiche sono necessarie. Riguardano il sostegno alle aziende più deboli, alla crescita culturale dei lavoratori, dei dirigenti e degli imprenditori. Riguardano la distinzione che occorre fare tra le diverse violazioni che non possono essere solo violazioni penali, occorrerebbe fare alcune distinzioni per permette di intervenire per correggere i comportamenti ed intervenire con la violazione penale solo per quelle più gravi e per le altre solo in presenza della reiterazione della violazione.  


[1] Palinsesto 2016.

[2] Renzo Raimondi in D.De Masi, F.O. Buratto, A. Cascioli, G. De Santis, R.Raimondi, F. Vacirca, A.M. Ventrella – Il lavoratore post-industriale, Franco Angeli 1985.

[3] Gaetano Natullo, “Nuovi” contenuti della contrattazione collettiva, organizzazione del lavoro e tutela della salute e sicurezza dei lavoratori – I WORKING PAPERS DI OLYMPUS – 5/2012.

[4] Diego Alhaique, Il riscatto del lavoro, su  “Il mese” inserto di Rassegna sindacale luglio 2006.

Paolo Gentile

Ergonomo, sociologo del lavoro e dell’organizzazione, RSPP