Licenziamento per malattia: va provato l’inadempimento del datore

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Ad un lavoratore che chiedeva il risarcimento del danno al datore di lavoro, a seguito del suo licenziamento per aver superato il periodo di comporto per un infortunio sul lavoro, la Corte di Cassazione, sez. Lavoro, con la sentenza n. 12241 del 12 giugno 2015, ha rigettato il ricorso perché il ricorrente non aveva provato tutti gli elementi dell’inadempimento, nonché il nesso di causalità tra l’evento e il danno.
In particolare, il lavoratore non ha indicato la condotta contraria del datore rispetto alle misure di sicurezza e non ha provato che il danno subito non era collegabile ad un inadempimento del datore.

Il fatto
Un lavoratore presentava un ricorso contro un Porto Turistico, sostenendo di aver prestato la sua attività in qualità di operaio addetto al controllo dell’accesso al porto e di essere stato licenziato per aver superato il periodo di comporto per malattia, raggiungendo i 242 giorni.
L’operaio affermava che l’assenza dal lavoro era dovuta ad un infortunio sul lavoro perché, mentre svolgeva la sua attività lavorativa e si recava alla toilette, che distava 300 metri dalla sua postazione, era caduto al suolo riportando una contusione alla spalla, al polso e alla mano destra. Per questo motivo era stato ricoverato in ospedale ed era stata aperta una pratica d’infortunio all’Inail.
Pertanto, il lavoratore nel ricorso sosteneva di essere stato illegittimamente licenziato e che l’assenza dal lavoro bisognava addebitarla alla società, ex art. 2087 c.c., perché, per l’art. 39 del D.P.R. 3003 del 1956, i gabinetti devono trovarsi in prossimità del posto di lavoro, e per la direttiva 89/391/CE il datore di lavoro deve valutare i rischi per la sicurezza e la salute.
In primo grado, il ricorso veniva respinto. Pertanto, il lavoratore agiva proponendo l’appello, che a sua volta veniva rigettato.
La corte territoriale affermava che il raggiungimento del bagno non era caratterizzato da un pericolo per l’incolumità delle persone, anche perché i bagni più vicini si trovavano a 60 metri dalla postazione di lavoro dell’operaio, non contrastando così con la normativa in tema di prevenzione.
Per queste ragioni il lavoratore decideva di ricorrere in Cassazione.

La decisione della Cassazione Lavoro
La Corte di Cassazione, sez. Lavoro, ha ritenuto infondato il ricorso. Per quanto riguarda l’art. 2087 c.c., gli ermellini hanno affermato che il lavoratore avrebbe dovuto indicare in modo specifico, le misure di prevenzione che il datore di lavoro avrebbe dovuto adottare (tra le altre, Cass. n. 8855 del 2013; n. 19826 del 2013; n. 4184 del 2006; n. 14469 del 2000, affermano tale esigenza, mentre la negano: Cass. n. 3788 del 2009; n. 21590 del 2008; n. 9856 del 2002; n. 1886 del 2000; n. 3234 del 1999).
Inoltre, secondo la Cassazione, il lavoratore deve provare l’esistenza del danno e il nesso di causalità tra l’evento e la nocività dell’ambiente di lavoro; il datore di lavoro, invece, deve dimostrare di aver adottato tutte le cautele necessarie per impedire il verificarsi del danno (Cass. n. 27364 del 2014, Cass. n. 10361 del 1997; n. 12661 del 1995; n. 11351 del 1993).
La Corte ha specificato che la prova della nocività dell’ambiente di lavoro consiste nell’indicare il comportamento che il debitore avrebbe dovuto tenere, nello specifico deve potersi evincere la condotta del datore contraria alle misure di sicurezza previste dalla legge o comunque desumibili dal contesto dell’art. 2087 c.c.
A sostegno di questa tesi, è stato rilevato dalla Cassazione, l’orientamento delle Sezioni Unite (Cass. SS.UU. n. 577 del 2008) dove, per potersi configurare una responsabilità per risarcimento del danno nelle obbligazioni di comportamento, l’inadempimento deve corrispondere alla causa che ha prodotto il danno; sarà il debitore, invece, a dover dimostrare che non c’è stato l’inadempimento o che comunque non ha causato il danno.

Quanto alla rendita riconosciuta dall’Inail, la Corte ha affermato che l’istituto riconosce l’assicurazione infortuni prescindendo dall’accertamento della responsabilità contrattuale, per il solo collegamento anche indiretto tra l’evento e l’attività lavorativa, anche nei casi in cui il lavoratore sta raggiungendo il posto di lavoro. Invece, per il giudizio di risarcimento del danno, il lavoratore deve provare tutti gli elementi dell’inadempimento e non limitarsi a “dedurre di avere riportato un danno in occasione o durante la prestazione lavorativa” (così Cass. n. 27364 del 2014).
Secondo gli ermellini, la corte territoriale ha correttamente applicato tali principi quando ha ritenuto che non c’era una carenza specifica dell’ambiente di lavoro e del documento di valutazione dei rischi; ed anche quando ha considerato non eccessiva la distanza tra la postazione di lavoro ed i bagni, ritenendo che il lavoratore non si era adoperato per richiedere di essere sostituito da un collega.
Per tutte queste ragioni, la Corte di Cassazione, sez. Lavoro, ha rigettato il ricorso del lavoratore, confermando la decisione assunta nei primi due gradi di giudizio.


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Redazione InSic

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