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Mobbing: negato il risarcimento di dipendente affetto da manie di persecuzione

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La corte di Cassazione si è espressa con una recente sentenza in merito alla responsabilità del datore di lavoro in caso di mobbing, per chiarire se la stessa possa subire un’attenuazione per effetto della sussistenza di concause come uno stato psicologico preesistente del lavoratore.

Nei casi esaminati dalla giurisprudenza, capita spesso che il datore di lavoro rilevi una particolare fragilità psicologica emotiva del lavoratore che si assume vittima di mobbing, oppure rilevi la presenza di altre cause che abbiano concorso a provocare il danno.
Una parte della giurisprudenza ha escluso che questi fattori possano esimere il datore di lavoro dalla responsabilità per i danni patiti, tuttavia, secondo altro diverso e recente orientamento, il mobbing, proprio perché non può prescindere da un supporto probatorio oggettivo, non può essere imputato in via esclusiva o prevalente al vissuto interiore del soggetto, ovvero, all’amplificazione da parte del lavoratore delle normali difficoltà che caratterizzano la vita lavorativa di ciascuno. Secondo tale indirizzo, “possono essere stigmatizzate come condotte di mobbing soltanto le fattispecie più gravi e non i meri episodi di inurbanità, scortesia o addirittura maleducazione”,(…) “con la conseguenza che non tutte le condotte del datore debbono essere considerate illecite per il solo fatto che sono avvertite come lesive dal solo lavoratore a causa della sua fragilità soggettiva nei rapporti personali, non potendo l’ambiente di lavoro, divenire una sorta di “Casa di Cura” per lavoratori delicati e fragili come cristalli”.

Premesso quanto esposto, nel caso di cui ci si occupa, la Suprema Corte di Cassazione con la sentenza n. 19814 del 28 agosto 2013, seguendo tale ultimo orientamento e confermando la decisione dei giudici di merito, ha affermato l’esclusione del risarcimento del Mobbing nel caso di vittima sofferente di manie di persecuzione.
Invero, secondo gli ermellini, la ricorrente, per soggettività caratteriale tendeva ad interpretare quelle che possono essere normali vicende lavorative come offese; un atteggiamento, protendendo a personalizzare come ostile ogni avvenimento come elemento di turbativa dell’ambiente di lavoro.
Al riguardo, anche la consulenza medico-legale d’ufficio aveva evidenziato un danno biologico di lieve entità rientrante nel concetto di sofferenza endogena, verosimilmente ascrivibile alla personalità che condizionavano la percezione che la ricorrente aveva delle proprie vicende lavorative.
Per questi motivi è stato escluso il mobbing, e per converso evidenziata la tendenza della ricorrente all’eccessiva personalizzazione, alla ‘vis’ polemica, alla continua censura dell’operato della direttrice e anche delle colleghe.
Dunque affinché il giudice possa considerare come illecita quella particolare condotta del datore è necessario che il danneggiato provi la finalità illecita della condotta medesima; tuttavia si ritiene che tale finalità illecita non vada ricercata nell’intento persecutorio personale del mobber, né guardando all’aspetto soggettivo della condotta (dolo o colpa), ma la finalità illecita deve essere apprezzata dal giudice in relazione all’idoneità lesiva dei beni della persona ed all’intrinseca ratio discriminatoria, che può essere accertata con le circostanze di fatto e le caratteristiche oggettive della condotta (monodirezionalità, connotazione emulativa o abusiva, pretestuosità), oltre alla permanenza nel tempo della condotta.

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Redazione InSic

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