Gestione dell’emergenza COVID-19. Frascheri: la chiave è nel modello partecipativo

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La gestione di una crisi come quella collegata al diffondersi del nuovo Coronavirus ha richiesto nell’immediato, risposte tempestive ed interventi rilevanti, specie in termini di prevenzione e tutela dei lavoratori. Con il prolungarsi della fase emergenziale emergono però altri aspetti che potrebbero essere stati accantonati in virtù dell’urgenza iniziale.
Ci sono allora questioni non pienamente regolamentate che possono creare difficoltà di gestione sui luoghi di lavoro? Ci sono aspetti che andrebbero rivisti o messi a punto?
Ne abbiamo voluto parlare con la D.ssa Cinzia Frascheri, giuslavorista – responsabile nazionale CISL salute e sicurezza su lavoro, che ci ha aiutato a scandagliare quanto messo in campo fino ad ora e ad individuare quanto, in virtù dell’evoluzione del quadro complessivo, necessiti una revisione.
Un’analisi a tutto campo, dalle tutele per i lavoratori fragili alla gestione delle finestre temporali in attesa dell’esito dei tamponi; dalla formazione in materia di salute e sicurezza, in presenza o a distanza, fino al lavoro agile e alle adeguate tutele ad esso connesse.

Il Sistema di Prevenzione alla prova del COVID-19

Negli ultimi mesi siamo entrati in una nuova fase dell’emergenza coronavirus. In risposta, le imprese stanno applicando le misure anti-contagio. Il sistema di prevenzione sta quindi funzionando?
Cinzia Frascheri: Ricordando il decreto legge del 23 febbraio 2020, attraverso il quale vennero introdotte le prime Misure urgenti di contenimento e gestione dell’emergenza Covid-19, nessuno avrebbe mai pensato che, dopo nove mesi, ci saremmo ritrovati con un nuovo decreto legge che fissa lo stato di emergenza da COVID-19 al 31 gennaio 2021.
Nell’avvicendarsi delle fasi, tra quelle più acute (dei primi mesi) a quelle più lievi (del periodo estivo), fino ad arrivare ad oggi, dove stiamo purtroppo assistendo nuovamente ad una recrudescenza delle condizioni complessive, registrando un esponenziale aumento dei casi di persone contagiate e la relativa difficoltà di gestione (soprattutto sul fronte sanitario), il mondo del lavoro si è trovato a dover fronteggiare una situazione straordinariamente complessa.
La risposta data in modo condiviso dalle Parti sociali nazionali, attraverso la stipula del Protocollo siglato il 14 marzo, solo dopo tre giorni dalla raccomandazione del Governo di addivenire ad una intesa, quale atto di concreta responsabilità, è a tutti nota, avendo di certo rappresentato un intervento che ha segnato una tappa importante nel percorso delle relazioni sindacali nel nostro Paese. Perché, se sul piano degli interventi e delle procedure previste, coniugate per gli ambienti di lavoro dalle misure precauzionali disposte dalle autorità competenti, il Protocollo ha offerto nell’immediato un insieme concreto di regole di diretta applicazione (aggiornate poi il 24 aprile u.s.e, oggi, sicuramente rivedibili, alla luce del quadro attuale), è senza alcun dubbio il modello di gestionale introdotto, a carattere partecipativo, che ha costituito l’elemento di più grande rilievo.
Avendo, difatti, previsto (in un testo nato a carattere contrattuale e poi divenuto, per volontà governativa, norma vincolante per tutte le realtà aziendali), l’istituzione di uno specifico Comitato aziendale, dalle funzioni di “cabina di regia” per gli interventi antiCOVID-19, a composizione paritetica, sia dal lato dei componenti (prevedendo la presenza anche delle due forme di rappresentanza, quella specifica e quella contrattuale – RLS/RSARSU), che per le funzioni da svolgere (dall’elaborazione delle misure di intervento alla verifica delle loro efficacia), si sono poste le basi di un concreto e nuovo sistema di governo della prevenzione, all’interno delle realtà lavorative che, come chiesto nella domanda, “sta funzionando”.
Dall’osservatorio nazionale, in effetti, che il mio ruolo mi consente di avere, tolta una percentuale minima di situazioni aziendali non del tutto rispettose dell’impostazione prevista, nella maggioranza delle aziende è stato correttamente costituito il Comitato aziendale che sta svolgendo il proprio delicato e fondamentale ruolo del coniugare le esigenze produttive con le massime garanzie di tutela di chi lavora.

Ci sono aspetti del Protocollo che andrebbero ora rivisti o messi a punto?
C.F.: Se quanto stiamo vivendo in queste settimane, ci sta facendo capire che non possiamo considerarci assolutamente fuori dalla pandemia (pur dovendo fare i giusti distinguo tra quanto accaduto, con la gravità dei casi della primavera scorsa e, quanto accade oggi, con una sostanziale minore aggressività del virus, ma con una diffusione moltiplicatasi in modo esponenziale, interessando una forbice più ampia di età, colpendo anche i soggetti meno anziani), la necessità di risposte adeguate ed efficaci, in termini di prevenzione, tutela e interventi precauzionali, deve avere sicuramente il carattere della tempestività e della dinamicità.
Nell’assoluta autonomia di ogni realtà lavorativa, chiamata espressamente dalla normativa prevenzionale vigente all’aggiornamento continuo delle misure di tutela della salute e sicurezza degli occupati, a fronte di ogni accadimento (di processo e/o organizzativo), innovazioni, stato di salute della collettività (come dettato puntualmente all’art. 29 del D.Lgs. 81/08 s.m.), divenuto il Protocollo condiviso del 14 marzo (aggiornato 24 aprile u.s.) l’articolato di riferimento vincolante per la gestione negli ambienti di lavoro delle misure di intervento antiCOVID-19, ai fini dell’aggiornamento delle procedure in esso previste, quando non più coerenti e consone all’evoluzione del quadro complessivo dello stato emergenziale in atto, la revisione di taluni contenuti si pone come sicuramente necessaria. Un intervento quest’ultimo che, considerata la possibile sospensione dell’attività produttiva in caso di mancata elaborazione del Protocollo aziendale di sicurezza anti-contagio (da leggere anche come mancato adeguato aggiornamento), così come anche di possibili sanzioni amministrative in caso di evidenza da parte degli organi di vigilanza di mancata applicazione in ambiente di lavoro delle misure idonee al contrasto della diffusione ed esposizione al contagio, diviene ancor più di assoluta urgenza.
Va detto, però, che il mancato (o meglio ritardato) intervento di ulteriore aggiornamento del Protocollo condiviso nazionale, a cura delle Parti sociali nazionali, lo si deve all’emissione continua, in particolare nell’ultimi mesi, di DPCM che, introducendo misure restrittive e regolative a carattere vincolante, anche per gli ambienti di lavoro, hanno reso gli interventi di revisione di alcune parti del Protocollo condiviso non più così urgenti e necessarie.
In questo senso, nello specifico, quanto previsto nel Protocollo in tema di formazione in materia di salute e sicurezza sul lavoro, in tema di riunioni e di regolazione delle trasferte, parti non più rispondenti a quanto ritenuto adeguato (essendo state elaborate per fronteggiare la situazione in essere, nell’aprile scorso), trova oggi puntuale regolazione attraverso il dettato dell’ultimo DPCM del 3 novembre, nel quale sono state previste disposizioni specifiche su tali temi.

Rimangono ancora questioni non pienamente regolate che creano nelle realtà lavorative problemi di gestione?
C.F.: Purtroppo sì. Attualmente sul fronte della gestione, in ambiente di lavoro, di tutta la casistica rientrante nei lavoratori “fragili”, nei lavoratori classificati come “contatti stretti”, nei lavoratori in quarantena a seguito di trasferte in “zone a rischio”, si hanno ampie mancanze sul piano della regolazione e sul piano del riconoscimento pieno del proprio diritto al lavoro.
Le mancate proroghe di specifici diritti previsti fino all’ultima scadenza del 15 ottobre u.s. (non riconfermati nella conversione a legge del Decreto “Agosto”), relativi alla casistica dapprima elencata, hanno sicuramente determinato oggi una condizione di particolare difficoltà che si scarica sui singoli occupati e, di riflesso, determina il moltiplicarsi di problemi nell’ambito dell’organizzazione del lavoro nelle realtà lavorative.
Per i lavoratori “fragili”, in particolare, le misure introdotte dal decreto “Cura Italia” (divenuto poi L. 24 aprile 2020, n. 27), e decreto “Rilancio” (convertito in L. 17 luglio 2020, n. 77), pur non pienamente in grado di garantire una totale copertura e tutela, già al momento della loro emissione, sicuramente per tutto il periodo che sono rimaste in vigore hanno offerto quelle agibilità che, con la mancata proroga e la venuta meno di tali disposizioni, hanno poi fatto registrare, non solo conseguenze gravose per i soggetti beneficiari di tali misure, rimasti senza, ma anche concreti problemi per l’assenza assoluta di regolamentazione.
Non meno rilevante, in questo senso, la mancanza di puntuale regolazione di tutte quelle finestre temporali che, determinandosi con il ri-acutizzarsi in questi mesi della diffusione del contagio e, di conseguenza, con il moltiplicarsi dei casi di necessario ricorso al tampone, rendono per i lavoratori il tempo di attesa del risultato un onere che si ripercuote sulle proprie disponibilità di ferie o di malattia (per alcuni ridotte ormai al limite); fattore quest’ultimo spesso motivo di disuguaglianze tra lavoratori, potendo alcuni contare su trattamenti contrattuali di maggior favore (quali il riconoscimento di giorni aggiuntivi a quelli spettanti ordinariamente), frutto di interventi mirati di contrattazione aziendale volta a regolare tali aspetti.

Nella difficoltà del momento, si rischia di cedere all’idea che se tuteliamo la salute delle persone distruggiamo l’economia del Paese, o viceversa. Come conciliare entrambi gli aspetti in questa delicata fase?
C.F.: Con chiarezza e fermezza va detto che se ci troviamo oggi a dover affrontare una nuova ondata di contagi e, pertanto, alla inevitabile necessità di dover rintrodurre forme di lockdown (anche se, per adesso, più “leggero” di quello della primavera scorsa e non su tutto il territorio nazionale), la responsabilità della situazione creatasi non può in alcun modo essere attribuita alla ripresa a pieno regime delle attività lavorative.
Fino dalla stipula, difatti, del Protocollo condiviso del 14 marzo e, ancor più poi, quando divenuto il contenuto vincolante per tutte le realtà lavorative, il mondo del lavoro ha dato prova di una presa in carico totale, a più alta responsabilità, della perfetta coniugazione della prosecuzione della produzione (fino dai primi mesi della Fase 1, la più difficile) con la massima tutela degli occupati (elaborando nella quasi totalità delle imprese il proprio specifico protocollo di sicurezza anti-contagio). Perché, se anche sul fronte dei costi sostenuti per le misure di tutela e protezione, il Governo si è adoperato per sollevare le aziende da tali spese (in alcuni casi, comunque, non a copertura totale, così come anche per quanto riguarda gli ammortizzatori sociali e il volume delle perdite in termini di commesse e ordini), ad incidere maggiormente è stata la necessità di dover modificare profondamente l’organizzazione del lavoro, compreso in molti casi, anche il layout degli spazi, mantenendo però sempre alto il livello di tutela e rispetto delle regole precauzionali imposte.
Se i comportamenti nella società civile, nel tempo di vita e di svago (in particolare durante l’estate) fossero stati di pari responsabilità, come dimostrata da parte del mondo del lavoro, oggi sicuramente non ci troveremmo a dover nuovamente sacrificare la nostra, già sofferente, economia, tornando a chiudere le attività lavorative per preservare la salute della popolazione.
Sta di fatto che, in nessun caso, anche in una situazione come una pandemia di livello mondiale, il lavoro e la salute devono essere messi in contrapposizione, arrivando a dover scegliere quale bene favorire, a discapito dell’altro.

Formazione e lavoro agile: cosa andrebbe rivisto o migliorato?

Formazione e lavoro agile: due grandi temi. Ci stiamo muovendo adeguatamente per la sicurezza dei lavoratori su questi fronti?
C.F.: Considerate le specificità e le diverse regolazioni che hanno riguardato, dall’inizio del periodo emergenziale fino ad oggi, la formazione e il lavoro agile, occorre trattare i due temi in modo separato.
Partendo dalla formazione, attenendosi a quanto previsto dall’ultimo DPCM del 3 novembre u.s., che ha apportato nel merito modifiche rilevanti a quanto dettato dal Protocollo condiviso del 14 marzo (aggiornato 24 aprile), operando quell’evoluzione nelle misure non attuata dalle Parti sociali (avendo quest’ultime ritenuto, a ragione, il tempismo del Governo più efficace nel rispondere ai cambiamenti con provvedimenti diretti), si è passati da un regime di divieto assoluto (nella forma in presenza), all’essere consentita, in particolare in materia di salute e sicurezza sul lavoro (art. 1, co. 9, lett. s), quando rispettate le misure previste dal “Documento tecnico” pubblicato dall’INAIL (nell’Aprile scorso).
A fronte di tale concessione, è necessario evidenziare alcune brevi riflessioni. Se, difatti, la sospensione della formazione d’aula, prevista ad avvio dello stato emergenziale, apparve sulle prime la soluzione più ragionevole (considerato anche l’assoluta iniziale non conoscenza del fenomeno), ben presto, considerata la prosecuzione delle attività lavorative ritenute “necessarie”, apparve una scelta azzardata, tenuto ancor più conto della consentita possibilità di adibire i lavoratori allo svolgimento delle mansioni/ruoli senza il dovuto aggiornamento, indicando anche solo come esempi l’addetto all’emergenze e il carrellista (figure, come noto, ad alta esposizione a rischio).
L’attuale possibilità prevista, quindi, di svolgere la formazione in materia di salute e sicurezza, anche in presenza (nel rispetto delle misure precauzionali indicate), è sicuramente una scelta che va a favore della maggior tutela degli occupati, coniugando la prevenzione sul lavoro con le disposizioni di igiene sanitaria. Da questo, però, non si deve comunque arrivare a negare le opportunità che sono emerse nello svolgimento della formazione, in modalità di videoconferenza sincrona. La partecipazione ampia, difatti, da parte di molti occupati, che per ragioni diverse (costi, tempo, fattibilità…), mai avrebbero potuto partecipare a proposte formative di più alto livello, in termini di contenuti, docenza, confronto con più ampie esperienze, è sicuramente un fattore di non secondario rilievo che dovrà pesare positivamente nelle progettazioni e programmazioni future dell’offerta formativa, considerando la formazione in remoto (quando praticabile per materia), una modalità al pari (o preferibile) a quella più tradizionale, in presenza.

Anche in tema di lavoro agile, quanto ad oggi verificatosi porta ad una serie di riflessioni che, sintetizzando (nel rispetto degli spazi di questa intervista), si possono riassumere in tre considerazioni.
Posto che il ricorso al lavoro agile ha indubbiamente permesso la prosecuzione di molte attività lavorative che, diversamente, avrebbero dovuto essere sospese durante tutto il periodo di lockdown della primavera scorsa e così di questi mesi (anche se in forma più leggera e non generalizzata su tutto il territorio nazionale), tale modalità di lavoro ha prodotto in concreto una discriminazione di tutele tra gli occupati, non potendo tutti convertire la propria mansione in modalità remota o non avendo la disponibilità dei mezzi (attrezzatura e rete informatica personale adeguate) per poterla attuare.
Il lavoro agile ha anche rappresentato una “troppo facile” soluzione di accomodamento ragionevole per i lavoratori “fragili”. Se di sicuro per molti di questi lavoratori il non dover uscire dalla propria abitazione per svolgere la mansione ha significato una reale e concreta riduzione dei rischi derivanti dalla combinazione tra un possibile contagio e le precarie personali condizioni di salute, per tanti altri la via del lavoro agile proposta dalle aziende ha costituito la scelta obbligata a fronte di nessuna altra soluzione prospettata, rispettosa del diritto di questi lavoratori al recarsi al proprio posto di lavoro (fonte per tutti, come sappiamo, di stimoli psico-fisici importanti), con la garanzia di tutte le tutele adeguate alla propria condizione.
I ritardi, poi, da tempo evidenziati, nella grande parte delle organizzazioni del lavoro, delle aziende nel nostro Paese, al concretizzarsi dei problemi determinati dalla pandemia, si sono evidenziati in modo ancor più netto, determinando una frattura profonda tra le realtà lavorative in grado di affrontare agilmente il cambiamento (creando soluzioni innovative) e quelle non pronte e, pertanto, in sofferenza.
La scarsa attenzione, infine, generalmente posta alla modalità di lavoro agile, anche dopo il varo della normativa specifica (L. 81/2017) ha dimostrato come quel ritardo e sottovalutazione hanno determinato oggi conseguenze rilevanti nella non adeguata gestione di chi è stato assegnato a tale modalità che, seppur attivabile eccezionalmente anche senza la stipula dell’accordo previsto, avrebbe richiesto per ciascun lavoratore un preciso piano di lavoro con evidenziati obiettivi e compiti, anziché forme estemporanee di dimostrazione di “presenza in remoto”, oltre alla corretta informativa (dalla necessaria firma del datore di lavoro e del lavoratore, per presa visione) sui rischi intrinsechi nello svolgimento di tale modalità (documento risultato molto spesso mai inviato e/o non adeguato).

Gestione della crisi: di cosa fare tesoro?

Ci sono aspetti positivi, emersi nella gestione di questa crisi, di cui far tesoro e da cui ripartire a valle dell’emergenza pandemica?
C.F.: Se l’esperienza fatta, e quanto ancora stiamo vivendo, pur non avendola cercata e non certo augurandoci di doverla rivivere negli stessi termini di intensità e gravità, ci ha permesso di evidenziare ancor più con chiarezza le molte carenze sul piano dell’organizzazione del lavoro e delle tutele in materia di salute e sicurezza nel sistema produttivo italiano; quanto posto in essere dalle Parti sociali ha riconfermato, se mai ce ne fosse stato bisogno, come solo attraverso il lavoro congiunto e la condivisione dei problemi e delle soluzioni si possa efficacemente giungere a fronteggiare le situazioni, anche di estrema complessità. In una parola, quanto il modello partecipativo sia la chiave che apre tutte le porte e che permette di superare ogni ostacolo.
L’essere ricorsi congiuntamente, come Parti sociali nazionali, al ritenere che per proseguire in modo efficace l’attività lavorativa, garantendo la tutela e le protezioni adeguate agli occupati, non solo sarebbero state necessarie misure urgenti di intervento, ma la gestione complessiva svolta da parte di un “comitato specifico”, composto tra figure di parte datoriale e le diverse rappresentanze in azienda, poste al pari livello e chiamate all’elaborazione, applicazione e verifica delle regole anti-contagio, è una tappa indubbiamente avanzata – ci tengo a ribadirlo – del percorso delle relazioni sindacali nel nostro Paese, nei riguardi della quale non si potrà in nessun caso tornare indietro.

Redazione InSic

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