Corte Costituzionale: sequestro ILVA, prosecuzione d’attività e tutela della salute e sicurezza dei lavoratori

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La Corte Costituzionale con sentenza n.58/2018 – destinata a far discutere circa il bilanciamento dei diritti all’attività imprenditoriale e il diritto alla tutela della salute e sicurezza dei lavoratori – dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 3 del decreto-legge 4 luglio 2015, n. 92 (Misure urgenti in materia di rifiuti e di autorizzazione integrata ambientale, nonché per l’esercizio dell’attività d’impresa di stabilimenti industriali di interesse strategico nazionale) e degli artt. 1, comma 2, e 21-octies della legge 6 agosto 2015, n. 132 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 27 giugno 2015, n. 83, recante misure urgenti in materia fallimentare, civile e processuale civile e di organizzazione e funzionamento dell’amministrazione giudiziaria).

La Corte sottolinea in diversi passaggi che il “legislatore ha finito col privilegiare in modo eccessivo l’interesse alla prosecuzione dell’attività produttiva, trascurando del tutto le esigenze di diritti costituzionali inviolabili legati alla tutela della salute e della vita stessa (artt. 2 e 32 Cost.), cui deve ritenersi inscindibilmente connesso il diritto al lavoro in ambiente sicuro e non pericoloso (art. 4 e 35 Cost.)”.
E ancora, “Rimuovere prontamente i fattori di pericolo per la salute, l’incolumità e la vita dei lavoratori costituisce infatti condizione minima e indispensabile perché l’attività produttiva si svolga in armonia con i principi costituzionali, sempre attenti anzitutto alle esigenze basilari della persona”.

Il Fatto
Tutto parte dall’ordinanza del 14 luglio 2015 con cui il GIP del Tribunale ordinario di Taranto ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3 del decreto-legge 4 luglio 2015, n. 92 in riferimento al sequestro preventivo dell’altoforno denominato “Afo2” presso lo stabilimento di Taranto della società ILVA.
Si procedeva, a carico di R. S. e altri dirigenti e tecnici in servizio presso tale stabilimento, per avere, in concorso, omesso di predisporre cautele volte a prevenire la proiezione di materiale incandescente e strumentazioni idonee a garantire l’incolumità dei lavoratori, da cui è derivato l’infortunio mortale di un operaio e per avere determinato la morte dello stesso.
In seguito era intervenuto il DL 92/2015, che, all’art. 3 aveva disposto una sospensione ex lege dell’esecuzione del sequestro, facendo riferimento, fra l’altro a quanto già previsto dall’art. 1 comma 4 del DL n.207/2012 (convertito in Legge dalla L.n.231/2012, che riguarda disposizioni urgenti di salute/ambiente negli stabilimenti industriali strategici.

I parametri costituzionali oggetto di violazione
Nel suo ragionamento la Corte parte dalle contestazioni di illegittimità costituzionale avanzate sull’art.3 del DL 92/2015, che violerebbe una pluralità di parametri costituzionali:
l’art. 2 CI: la norma impugnata consentirebbe l’esercizio dell’attività d’impresa pur in presenza di impianti pericolosi per la vita o l’incolumità umana, e così comprometterebbe diritti fondamentali della persona definiti «inviolabili» dalla stessa Carta costituzionale.
L’art. 3 CI non sarebbe rispettato il principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost., in quanto il legislatore riserverebbe alle imprese di interesse strategico nazionale un ingiustificato privilegio nell’adeguamento agli standard di sicurezza rispetto agli altri operatori economici,
L’art. 4 e 35 CI in quanto il diritto al lavoro presuppone condizioni di sicurezza nell’esecuzione della prestazione, che la normativa censurata non assicurerebbe.
L’art. 32, primo comma CI, in quanto la disciplina in esame metterebbe in pericolo la vita e l’incolumità individuale del cittadino-lavoratore, senza operare alcun ragionevole bilanciamento con altri diritti coinvolti.
L’art. 41, secondo comma CI, perché la prosecuzione dell’attività d’impresa in un impianto che espone i lavoratori a pericolo di vita, consentita dal DL 92/2015 alla sola condizione che l’azienda predisponga un progetto per la messa in sicurezza delle aree interessate, violerebbe il principio che l’attività economica privata si svolga in modo da non recare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana.
e l’art. 112 CI in quanto la prosecuzione dell’attività di impresa determinerebbe il perpetuarsi di una situazione penalmente rilevante, compromettendo così il principio di obbligatorietà dell’azione penale di cui all’art. 112 Cost., che deve ritenersi operante non solo nel potere-dovere di repressione dei reati, ma anche in quello di prevenzione dei medesimi, quale si esplica nell’adozione di misure cautelari reali di carattere preventivo.

L’abrogazione fittizia dell’art.3 del DL n.92/2015
Successivamente la Corte ricostruisce il “tortuoso e del tutto anomalo” iter di abrogazione dell’art. 3 del decreto-legge 4 luglio 2015, n. 92, che l’Avvocatura pone alla base dell’eccezione di inammissibilità delle questioni sollevate “per sopravvenuta carenza di interesse”.
Riscontra la Corte che, prima della scadenza del termine di conversione del DL 92/2015, è sopraggiunta la Legge 6 agosto 2015, n. 132 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 27 giugno 2015, n. 83) che con una prima disposizione (art. 1, comma 2), ha abrogato il censurato art. 3 del d.l. n. 92/2015 e ha contestualmente previsto una clausola di salvezza per gli effetti giuridici nel frattempo prodottisi; nello stesso tempo, con l’art. 21-octies, ha reintrodotto la previsione abrogata, nella sua letterale identità.
Secondo la Corte, la tecnica normativa ha dunque fatto salvi gli effetti pregressi della norma abrogata, prima ancora che scadesse il termine per la conversione del decreto-legge originario che la conteneva e “l’effetto finale è stato quello di assicurare, pur nel succedersi delle disposizioni, una piena continuità normativa della disciplina oggetto dei dubbi di legittimità costituzionale. Pertanto, in una tale evenienza, il susseguirsi delle disposizioni non fa venir meno la perdurante rilevanza della questione di legittimità costituzionale sollevata e non ne pregiudica l’esame nel merito da parte di questa Corte” sostengono i Giudici liquidando così l’eccezione di inammissibilità.

L’Art.3 del D.L. n.85/2013 e il bilanciamento dei valori costituzionali in gioco
Sempre in merito alla disposizione abrogata, la Corte cita la propria sentenza n.85/2013 dove si analizzava il contenuto del’art.1 comma 4 del DL 207/2012 (Disposizioni urgenti di salute/ambiente in caso di crisi di stabilimenti industriali di interesse strategico) ove «è considerata lecita la continuazione dell’attività produttiva di aziende sottoposte a sequestro, a condizione che vengano osservate […] le regole che limitano, circoscrivono e indirizzano la prosecuzione dell’attività stessa» secondo un percorso di risanamento – delineato in quel caso dalla nuova autorizzazione integrata ambientale – ispirato al bilanciamento tra tutti i beni e i diritti costituzionalmente protetti, tra cui il diritto alla salute, il diritto all’ambiente salubre e il diritto al lavoro.
E chiosa: “Non può infatti ritenersi astrattamente precluso al legislatore di intervenire per salvaguardare la continuità produttiva in settori strategici per l’economia nazionale e per garantire i correlati livelli di occupazione, prevedendo che sequestri preventivi disposti dall’autorità giudiziaria nel corso di processi penali non impediscano la prosecuzione dell’attività d’impresa; ma ciò può farsi solo attraverso un ragionevole ed equilibrato bilanciamento dei valori costituzionali in gioco”.
Ed ancora riguardo al citato bilanciamento si richiama quanto detto nella sentenza n.85/2013: deve essere condotto senza consentire «l’illimitata espansione di uno dei diritti, che diverrebbe “tiranno” nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette, che costituiscono, nel loro insieme, espressione della dignità della persona».

Il Piano dell’ILVA
Nel caso di specie avvenuto in ILVA, invece ( a differenza di quello richiamato nella sentenza n.85/2013), la “prosecuzione” dell’attività di impresa venne subordinata esclusivamente alla predisposizione unilaterale di un “piano recante misure e attività aggiuntive” (di carattere anche “provvisorio”) ad opera della stessa parte privata colpita dal sequestro dell’autorità giudiziaria, e senza alcuna forma di partecipazione di altri soggetti pubblici o privati.
Inoltre, insiste la Corte, per questo Piano manca del tutto la richiesta di misure immediate e tempestive atte a rimuovere prontamente la situazione di pericolo per l’incolumità dei lavoratori, tanto più che “durante la pendenza del termine è espressamente consentita la prosecuzione dell’attività d’impresa “senza soluzione di continuità”, sicché anche gli impianti sottoposti a sequestro preventivo possono continuare ad operare senza modifiche in attesa della predisposizione del piano e, quindi, senza che neppure il piano sia adottato”.
Anche rispetto al contenuto del Piano, risulta vago il suo contenuto, tanto che la Corte afferma che:
– -“il mancato riferimento a specifiche disposizioni delle leggi in materia di sicurezza sul lavoro o ad altri modelli organizzativi e di prevenzione lascia sfornito l’ordinamento di qualsiasi concreta ed effettiva possibilità di reazione per le violazioni che si dovessero perpetrare durante la prosecuzione dell’attività”;
– non è prevista alcuna partecipazione di autorità pubbliche, le quali devono essere informate solo successivamente;
– si traduce nell’attribuzione di un generico potere di monitoraggio e ispezione per quanto riguarda INAIL, ASL e Vigili del Fuoco: “tale potere, peraltro, si limita alla verifica della corrispondenza tra le misure aggiuntive indicate nel piano e quelle in concreto attuate dall’impresa, così da renderne ambigua e indeterminata l’effettiva possibilità di incidenza”.

Attività d’Impresa e sicurezza del lavoratore
Pertanto, chiude la Corte, “Il sacrificio di tali fondamentali valori tutelati dalla Costituzione porta a ritenere che la normativa impugnata non rispetti i limiti che la Costituzione impone all’attività d’impresa la quale, ai sensi dell’art. 41 Cost., si deve esplicare sempre in modo da non recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. Rimuovere prontamente i fattori di pericolo per la salute, l’incolumità e la vita dei lavoratori costituisce infatti condizione minima e indispensabile perché l’attività produttiva si svolga in armonia con i principi costituzionali, sempre attenti anzitutto alle esigenze basilari della persona”.
E quanto all’art.41 CI e alla salvaguardia del diritto all’attività di impresa ricorda: “deve essere interpretato nel senso che esso «limita espressamente la tutela dell’iniziativa economica privata quando questa ponga in pericolo la “sicurezza” del lavoratore» (sentenza n. 405 del 1999). Così come è costante la giurisprudenza costituzionale nel ribadire che anche le norme costituzionali di cui agli artt. 32 e 41 Cost. impongono ai datori di lavoro la massima attenzione per la protezione della salute e dell’integrità fisica dei lavoratori (sentenza n. 399 del 1996)”.

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Redazione InSic

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