Bonifiche: non spettano sempre al proprietario del sito inquinato

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Con Sentenza n.1679/2015 del tar Lecce si esclude che il proprietario debba sempre essere responsabile dell’inquinamento, ma deve attuare le misure di prevenzione per evitare che scaturiscano conseguenze dannose dall’accertata situazione di inquinamento


Il Tar di Lecce, sez. I, con la sentenza n. 1697 del 21 maggio 2015, ha accolto il ricorso di una società farmaceutica a cui era stata ordinata, dalla Provincia di Brindisi, la bonifica di un sito inquinato, utilizzato come discarica di rifiuti speciali.
Il Consiglio ha ritenuto che il responsabile dell’inquinamento non sia necessariamente il proprietario o il detentore dell’area, ma deve sussistere il nesso di causalità tra azione/omissione del destinatario del provvedimento e il superamento dei limiti di contaminazione.
La Pubblica Amministrazione, invece, non aveva verificato la sussistenza del nesso causale.

Il Fatto
Una società operante nel settore farmaceutico, ha presentato ricorso nei confronti della Provincia di Brindisi, per vedere annullare un’ordinanza che prevedeva la bonifica di un sito inquinato, utilizzato come discarica per lo smaltimento di rifiuti speciali prodotti nello stabilimento.
La Provincia, aveva ordinato alla società di attuare le misure di prevenzione mirate a contenere la diffusione di sostanze inquinanti, nello specifico per quanto riguardava le acque di falda sottostanti al sito in cui avveniva lo stoccaggio dei rifiuti, voleva che fosse elaborato e presentato un Piano di Caratterizzazione, ai sensi del D.Lgs. 152/2006, Tit. V, Parte IV e del DM n.471/99; e che fossero realizzati gli interventi di bonifica derivanti dalle indagini di caratterizzazione e dall’analisi di rischio del sito contaminato.
La società, nel ricorso, ha lamentato l’eccesso di potere, la contraddittorietà, il difetto di motivazione, il travisamento dei fatti e la carenza istruttoria, ai sensi degli artt. 242 e 244 del d.lgs. 152/2006.

La decisione del Tar di Lecce
Il Tar di Lecce ha deciso di accogliere il ricorso della società farmaceutica, partendo dall’analisi dell’art. 244 del d.lgs.152/2006.
Tale articolo, prevede che le pubbliche amministrazioni che individuano siti in cui è accertato che i livelli di contaminazione sono superiori ai valori di concentrazione soglia, danno comunicazione alla Regione, alla Provincia e al Comune competenti.
La Provincia, una volta effettuate le indagini per identificare il responsabile dell’evento, lo diffida con un’ordinanza a provvedere.Invece, nei casi in cui il responsabile non fosse individuabile, l’amministrazione procede in conformità all’art. 250.

Dall’esame dell’articolo 244, è evidente che l’obbligo di adottare le misure per far fronte all’inquinamento, è a carico del responsabile dell’inquinamento a titolo di dolo o colpa.
Non possono invece essere ritenuti responsabili, i soggetti esenti da responsabilità, anche se proprietari o detentori dell’area, e pertanto non gli si può imporre l’attività di recupero e di risanamento del danno causato da chi ha precedentemente utilizzato il sito (Cons. Stato, Sez. V, 19 marzo 2009, n. 1612; Tar Toscana, Sez. II, 1 aprile 2011, n. 565).
I soggetti non responsabili devono adottare, invece, le misure di prevenzione, ai sensi degli artt. 242 e 245 del citato decreto.
Per aversi responsabilità, è necessario che ci sia il rapporto di causalità tra l’azione/omissione del destinatario del provvedimento e il superamento o il pericolo di superamento dei limiti di contaminazione. Non può sussistere la responsabilità oggettiva solo per il fatto che il terzo custodisca l’immobile (Cass. Civ. SS.UU., 25 febbraio 2009, n. 4472).
Sulla base di queste osservazioni, il Collegio ha ritenuto che l’ordinanza impugnata non fosse giustificata, in quanto la Pubblica Amministrazione non aveva verificato la sussistenza del nesso causale tra l’inquinamento e la responsabilità della società.
La società, difatti, non era la proprietaria dell’area, perché il sito era stato ceduto alla Provincia nel 1999. Inoltre, nel corso del giudizio, aveva provato l’assenza di responsabilità richiamando una relazione del CNR del 2008, in cui era affermato che il cloroformio fosse stato trovato nella falda e non nel terreno, e che quindi non potesse provenire dai rifiuti smaltiti nella cava.
Infine, per la presenza del dimetilsolfuro evidenziato nell’ordinanza, era risultato presente solo in un campione solido e non in un campione d’acqua, e non era nemmeno stata indicata la sua concentrazione.

Per queste ragioni, la Corte ha ritenuto che l’ordinanza fosse viziata da difetto istruttorio e motivazionale.
Invece, per quanto riguarda l’obbligo di prevenzione, l’art. 245, secondo comma, del d. lgs. n. 152/06 prevede che “il proprietario o il gestore dell’area che rilevi il superamento o il pericolo concreto e attuale del superamento della concentrazione soglia di contaminazione (CSC) deve darne comunicazione alla regione, alla provincia ed al comune territorialmente competenti e attuare le misure di prevenzione secondo la procedura di cui all’articolo 242”.
A cui va aggiunto che, secondo il testo precedente, l’art. 242 imponeva l’obbligo di adottare le misure di prevenzione anche alle contaminazioni storiche; in questo modo, sul proprietario o sul gestore dell’area inquinata gravava un obbligo di prevenzione, per il suo potere di uso e custodia dell’area inquinata.
Pertanto il proprietario o il gestore vanno ritenuti i soggetti che devono adottare le misure di prevenzione, per evitare che scaturiscano conseguenze dannose dall’accertata situazione di inquinamento e dalla diffusione dello stesso, proprio attraverso la falda acquifera.

In questo caso, il proprietario e il gestore coincidono con la Provincia di Brindisi, che avrebbe dovuto attuare le misure preventive, definite dall’art. 240, primo comma, lett. i) come le iniziative necessarie a “contrastare un evento, un atto o un’omissione che ha creato una minaccia imminente per la salute o per l’ambiente, intesa come rischio sufficientemente probabile che si verifichi un danno sotto il profilo sanitario o ambientale in un futuro prossimo, al fine di impedire o minimizzare il realizzarsi di tale minaccia”.
Ciò quando venga accertato il superamento delle concentrazioni soglia di rischio (CSR) indicate dalla lett. c) come “i livelli di contaminazione delle matrici ambientali, da determinare caso per caso con l’applicazione della procedura di analisi di rischio sito specifica secondo i principi illustrati nell’Allegato 1 alla parte quarta del decreto e sulla base dei risultati del piano di caratterizzazione, il cui superamento richiede la messa in sicurezza e la bonifica.”.
Alla lett. t) sono definite le condizioni di emergenza a cui corrispondono gli obblighi di messa in sicurezza.
Nello specifico devono sussistere:
– le concentrazioni attuali o potenziali dei vapori in spazi confinati prossime ai livelli di esplosività o idonee a causare effetti nocivi acuti alla salute;
-la presenza di quantità significative di prodotto in fase separata sul suolo o in corsi di acqua superficiali o nella falda;
-la contaminazione di pozzi ad utilizzo idropotabile o per scopi agricoli;
-il pericolo di incendi ed esplosioni.

Da questo risulta che l’ordine di messa in sicurezza del sito debba essere adeguatamente motivato dalla Pubblica Amministrazione, per ragioni d’urgenza e di pericolo per la salute.
Sulla base di tutte queste motivazioni, la Corte ha accolto il ricorso della società farmaceutica.

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Redazione InSic

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