Bonifiche siti inquinati: vanno restituite le spese della PA

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Il Consiglio di Stato, con la sentenza n. 4466 del 23 settembre 2015, ha accolto il ricorso del Comune di Napoli, il quale era stato condannato dal Tar, a effettuare la bonifica di una “colmata” inquinata dall’Italsider. La Sezione ha ritenuto che l’Amministrazione pubblica può effettuare i lavori, salvo poi agire nei confronti del responsabile, per il ristoro delle spese affrontate (artt. 244 e seg. del D.Lgs. n. 152 del 2006), in virtù del principio europeo “Chi inquina, paga!.

Il fatto
Una società ha impugnato, in primo grado, un’ordinanza del Sindaco di Napoli, con cui lo stesso ordinava di presentare un progetto per la rimozione integrale di una colmata realizzata dalla Italsider negli anni sessanta, la quale aveva colmato uno specchio d’acqua, ed anche di realizzare il progetto, ai fini della messa in sicurezza dei luoghi.
Il Tar ha accolto il ricorso della società nella parte in cui si imputava al Comune, l’obbligo di effettuare la bonifica, in quanto subentrato nella titolarità delle aree e dei finanziamenti.
Per tali ragioni, il Comune di Napoli, ha proposto ricorso al Consiglio di Stato, sostenendo che l’area della “colmata” fosse di proprietà dell’Autorità Portuale di Napoli.


Secondo il Consiglio di Stato
Il Consiglio di Stato ha ritenuto di esaminare la questione riguardante la sussistenza o meno dell’obbligo in capo alla società, di disporre la bonifica dell’area ove a suo tempo la Italsider realizzò la “colmata”; concludendo per ritenere che le censure del Comune di Napoli erano tutte fondate.
Il Comune affermava nel ricorso, che il TAR aveva erroneamente assimilato la disciplina delle aree della “terraferma” a quella dell’area della “colmata”. Ed invece, ai sensi del D.L. n. 486 del 1996, la disciplina delle “aree di sedime” degli stabilimenti industriali andava distinta da quella riguardante la “colmata”.
Difatti, l’art. 1 del D.L. n. 486 del 1996, disponeva che, per le “aree di sedime” degli stabilimenti industriali, l’IRI (l’Istituto per la ricostruzione industriale) dovesse provvedere al risanamento ambientale dei sedimi industriali, interessati da stabilimenti di società del Gruppo e dall’ex Eternit, sulla base del progetto del “Piano di recupero ambientale”.
Il risanamento ambientale doveva avere ad oggetto le operazioni di smantellamento e di rimozione, le demolizioni e le rottamazioni, la bonifica delle aree dalla presenza di inquinanti fino alla profondità interessata dalla contaminazione; i cui valori dovevano corrispondere a quelli delle aree non inquinate circostanti il sito con analoghe caratteristiche geologiche e pedologiche.
L’art. 1 è stato incluso nell’art. 114 della L. n. 388 del 2000, dove al comma 19 è stata attribuita al Ministero dell’ambiente, la funzione di vigilanza e controllo sulla corretta e tempestiva attuazione del piano di recupero.
Invece, sempre nello stesso articolo, è stata attribuita al Comune di Napoli la facoltà di acquisire la proprietà delle aree oggetto degli interventi di bonifica, con la conseguente possibilità di subentrare nelle attività di bonifica.
Il comma 19 riguardava le “aree di sedime” degli stabilimenti industriali e ha comportato per il Comune di Napoli, di subentrare anche nell’obbligo di effettuare le relative attività di bonifica.

Quanto alla normativa prevista per la “colmata”, l’art. 1, al penultimo periodo del comma 14, del D.L. n. 486 del 1996 prevedeva che “gli interventi di ripristino, ove previsti dalla concessione demaniale relativa all’arenile e all’area marina, sono a carico dei relativi concessionari”.
Così, le aree in questione non potevano essere acquistate dal Comune di Napoli ma continuavano ad essere soggette alla relativa disciplina, sulla sussistenza dell’obbligo della rimozione a carico del concessionario.
È per questa ragione, che risultano fondate le censure del Comune di Napoli.
Difatti, le disposizioni sull’acquisto da parte del Comune delle aree da bonificare della “terraferma” non si applicano alla “colmata”, la quale ha un regime giuridico del tutto diverso e della quale è divenuta titolare l’Autorità Portuale di Napoli.
Il Tar ha invece affermato che il comma 18, comportava la traslazione degli obblighi di bonifica in capo al Comune. Invece, doveva distinguersi la posizione del concessionario, tenuto a rimuovere la colmata e a bonificare l’area, da quella delle società, a suo tempo proprietaria delle aree interessate dagli stabilimenti industriali.
La sezione ha anche esaminato l’ambito di applicazione dell’art. 17, comma 2, del D.Lgs. n. 22 del 1997, affermando che gli obblighi di bonifica riguardano anche le situazioni e le attività riferibili al periodo antecedente alla sua entrata in vigore.
Pertanto, l’illecito ambientale, in coerenza col principio “chi inquina paga”, può qualificarsi come illecito di natura permanente, poiché la compromissione dell’ambiente continua a sussistere fin quando viene meno l’inquinamento.
Oltre al fatto che, qualora una disposizione di legge disponesse l’obbligo del Comune di Napoli di porre in essere la bonifica o la messa in sicurezza della “colmata”, si tratterebbe di un obbligo “aggiuntivo”, ma non “sostitutivo” di quello gravante sul responsabile.
C’è un principio, infatti, in materia ambientale, di ordine generale che prevede, in caso di inquinamento riferibile ad un responsabile, di porre in essere ogni misura volta al disinquinamento ed alla messa in sicurezza, ferma restando la responsabilità dell’autore dell’inquinamento.
L’art. 2041 c.c., infatti, prevede che l’Amministrazione pubblica possa effettuare i lavori, potendo poi agire nei suoi confronti del responsabile, per il ristoro delle spese affrontate (artt. 244 e seguenti del D.Lgs. n. 152 del 2006).
Da quanto affermato, è possibile evincere che quando una disposizione imponga alla PA di effettuare lavori di disinquinamento o di bonifica, su un sito il cui inquinamento è ad altri imputabile, resta ferma la responsabilità di chi abbia inquinato.
Il tutto in linea con il principio europeo “chi inquina paga” (ribadito dall’art. 3 ter, comma 1, del D.Lgs. n. 152 del 2006). Diversamente si tratterebbe di un aiuto di Stato, che porrebbe seri dubbi di costituzionalità.

Quanto al motivo lamentato dalla società, sulla violazione degli artt. 50 e 54 del D.Lgs. n. 267 del 2000, la Sezione lo ha accolto, sostenendo che non vi fosse una specifica motivazione alla base dell’ordinanza, con riferimento alla giurisprudenza che ha previsto che “le ordinanze sindacali contingibili ed urgenti possono essere emanate per fronteggiare situazioni impreviste e non altrimenti fronteggiabili con gli strumenti ordinari, al fine di prevenire o eliminare gravi pericoli che minacciano l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana” (cfr. da ultimo, Cons. St. Sez. V, 3 giugno 2013, n. 3024; Sez. VI, 31 maggio 2013, n. 3007).
Per la bonifica e la messa in sicurezza dei siti inquinati, le Amministrazioni possono emanare il provvedimento previsto dall’art. 244, comma 2 del D.Lgs. 152/2006, che prevede, in caso di una potenziale contaminazione di un sito, di imporre ai responsabili dell’inquinamento, gli interventi di caratterizzazione, messa in sicurezza (d’emergenza o definitiva), di bonifica e di ripristino ambientale.
In caso di ragioni impellenti, il Comune può emanare l’ordinanza contingibile ed urgente, ma devono risultare le relative ragioni d’urgenza.
Nel caso in esame, la colmata era sì composta da sostanze inquinanti, ma si trattava di una situazione risalente nel tempo. Ed invece, avrebbe dovuto trattarsi un improvviso peggioramento delle condizioni ambientali.
Per tutte le ragioni esposte, il Consiglio di Stato, ha accolto l’appello principale del Comune di Napoli.

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Redazione InSic

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