Sostenibilità ambientale: come costruire la ripresa e rilanciare il futuro del Paese? – Intervista al Dott. Andrea Quaranta

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La rivoluzione green e digitale è già in atto. Se ne parla da diverso tempo.
Ma cosa manca per facilitare e rendere pienamente operativa questa transizione, in particolare, a valle della crisi causata dal Coronavirus?
Quali risvolti concreti può generare – inoltre – tale passaggio, a livello ambientale, sociale ed economico?
Abbiamo rivolto queste domande al Dott. Andrea Quaranta, Consulente ambientale e titolare di Natura Giuridica S.a.S., nonché storico collaboratore della rivista Ambiente & Sicurezza sul Lavoro, il quale ci ha offerto un quadro completo e ricco di dettagli, a volte crudi, ma non per questo privi di un orizzonte positivo. Con soluzioni alla portata di tutti, guidate e sorrette da un “pensiero sostenibile”.

Sostenibilità: un concetto da declinare al plurale

Il nuovo Rapporto Greenitaly ha messo in luce come in Italia ci siano 3,1 milioni di green jobs, il 13,4% degli occupati. Cosa comporta questo?
Andrea Quaranta: La crisi generata dal Coronavirus nel 2020 ha finalmente portato alla ribalta un tema fondamentale per il nostro futuro: la sostenibilità, nelle sue tre fondamentali accezioni.
La sostenibilità, infatti, è un concetto che non può più essere limitato alla sola componente ambientale: non si può più parlare di sostenibilità al singolare, ma soltanto al plurale, e considerare quanto meno le tre sostenibilità prese in considerazione della ISO 14001:2015, in quanto intimamente ed inestricabilmente connesse: la sostenibilità ambientale, quella sociale e quella economica. Il miglioramento (ma anche il suo contrario…) della prima ha inevitabili ripercussioni positive sulle altre.
Fino all’anno scorso si sentiva parlare in modo più o meno consapevole ed analitico, di green jobs, ma senza quel necessario approfondimento e quella doverosa contestualizzazione che avrebbero meritato.
Il rapporto GreenItaly – che anche in passato, fra i pochi, ha studiato a fondo le dinamiche del “lavoro verde” – non fa che confermare un trend già in crescita negli anni passati, che oggi, tuttavia, dovrà subire una forte accelerata, per consentire una più rapida, strutturale e sostenibile ripresa.
Dovrà: perché, per dirla con le parole di Papa Francesco, non a caso richiamate nella prefazione del Rapporto, “peggio di questa crisi c’è solo il dramma di sprecarla”.
Oltre a gestire al meglio l’emergenza limitando i danni sanitari e sociali dobbiamo lavorare da subito per un futuro migliore.

In cosa consiste questa “accelerata”, cui fa riferimento?
A.Q: Unire green e digitale: l’unico cambiamento in grado di garantire quella svolta che da troppi anni attendiamo, senza tuttavia farlo in modo proactive.
Una trasformazione, quella digitale, che ha mandato in pensione – e continuerà a farlo – alcune vecchie professioni, ma che nello stesso tempo ne sta creando anche di nuove, iper-specializzate e dotate della necessaria flessibilità, indispensabile per lavorare in contesti multidisciplinari.
Questo cambiamento, inevitabile, nella vita lavorativa reale del Paese, tuttavia, non è ancora accompagnato, sia a livello normativo che societario, da veri, strutturali e strutturati processi di riforma.
Ancora legate a vecchie categorie concettuali, le norme, spesso frazionate, complesse ed inadeguate, non facilitano, anzi complicano, la gestione del cambiamento, nonché dei rischi e delle opportunità allo stesso associati.
A livello societario, invece, manca ancora una consapevolezza dell’importanza di una tempestiva e continua analisi regolamentare, in grado di aiutare l’azienda stessa a gestire i rischi e le opportunità.
Anche per questi motivi sta diventando sempre più importante la figura del compliance officer, che ha il compito di supervisionare e gestire le tematiche di compliance aziendale, assicurando, che la struttura sia conforme ai requisiti dettati dalla regolamentazione e che le risorse stiano rispettando le politiche e le procedure interne.

Professioni ambientali: quali le richieste?

Quindi dall’unione di green e digitale nasceranno nuove professioni?
A.Q: Certamente, ma non bisogna fare l’errore di credere che green saranno soltanto le nuove professioni nate da questo connubio: è il punto di vista che deve cambiare, e dovrà coinvolgere tutti, anche e forse soprattutto le vecchie professioni, che dovranno rimodularsi in chiave green, e continuare a svolgere i servizi, o a creare prodotti, in un’altra ottica, guardando alle molteplici sostenibilità, cui facevo riferimento.
La crisi, come dicevo, ha fatto emergere la fondamentale importanza dell’essere, e del fare, economia in modo green: e per farlo, occorrono degli specialisti, nelle nuove come nelle tradizionali occupazioni.

È possibile, partendo da questo dato, compiere un’analisi del sistema delle professioni ambientali?
A.Q: Certamente, tenendo a mente che si tratta di professioni in continua evoluzione: nella vita reale di tutti i giorni, innanzitutto, e quindi – con colpevole ritardo – anche a livello normativo.
Il ruolo della politica dovrebbe essere, non quello di regolamentare in modo rigido le professioni, secondo una logica ancorata allo scorso millennio, ma di creare le condizioni per lo sviluppo sia delle nuove professionalità che del revamping, come va di moda dire oggi, di quelle tradizionali, nell’ottica delle sostenibilità.

È possibile fare qualche cenno – mi rendo conto, lo spazio e il tempo non sono sufficienti, ma spero avremo l’occasione per approfondire ancora questi temi – al sistema delle professioni ambientali?
A.Q: Ma certo, sempre nella consapevolezza che non si può essere esaustivi, sia per motivi di spazio, sia perché le professioni ambientali sono “mutevoli”, in funzione di mille aspetti, sia pure accomunati da una caratteristica comune: la multidisciplinarietà.
Bisogna fare però una premessa.
Quando, poco fa, sottolineavo che fino all’anno scorso si sentiva parlare in modo più o meno consapevole ed analitico, di green jobs, mi riferivo soprattutto al fatto che la rete pullula di brevi articoli in cui si parla, con una certa, ma giustificata, enfasi, dei “100 lavori del futuro”, quasi tutti legati alla green economy, “dalla A dell’account esperto in marketing ambientale alla Z dello zoonomo sostenibile“.
Si tratta, per lo più, di sintetiche elencazioni di mestieri che spesso, nella realtà di tutti i giorni, si tende a riassumere con il concetto di “consulenza ambientale“, un termine molto generico che non è in grado di far comprendere appieno – a volte neanche agli addetti ai lavori – di che cosa stiamo parlando.
Basta digitare la stringa “consulenza ambientale” su un qualsiasi motore di ricerca (non solo) specialistico, per esempio, e subito compaiono centinaia di risultati eterogenei: dagli agenti agli ingegneri, dai chimici ai tecnici ambientali, dai giuristi ai biologi, passando per le svariate figure di “consultant”.
Ciò disorienta sia chi è alla ricerca di una consulenza, sia chi vuole proporre la sua professionalità…
Detto questo, mi piace considerare il mondo delle professioni ambientali come un singolo processo di un’unica “azienda pubblico-privata”, il cui core business sono le sostenibilità: beninteso, non sempre si tratta di professioni “a compartimento stagno” – uniche nel loro genere – e quelle che indichiamo come professioni possono essere, e nella realtà spesso sono, “soltanto” delle funzioni assegnate a lavoratori senza “quella” specifica qualifica ma “di fatto” aventi quelle mansioni.
E – come ci insegnano le norme ISO, costruite sul ciclo di Deming: Plan, Do, Check, Act – trovo appropriato classificare anche le professioni ambientali in:

  • professioni che definiremo sinteticamente manageriali (che corrispondono, in linea di massima, alla fase di Plan del ciclo di Deming);
  • professioni operative (le varie consulenze, declinate in funzione del contributo che danno alle sostenibilità);
  • professioni “di controllo” del corretto, efficace ed efficiente svolgimento delle attività, di cui ai due punti precedenti, in modo da poter garantire
  • professioni che si occupano del miglioramento continuo (figure manageriali di coordinamento e supervisione, come quella dell’HSE manager).

Quella dell’HSE manager, dunque, è una professione importante?
A.Q: Certo, si tratta di un ruolo apicale, a stretto contatto con l’alta direzione, che nel nuovo mondo lavorativo dovrà “dimostrare leadership ed impegno” nei riguardi della gestione dell’azienda, non solo a livello di ambiente e sicurezza, ma a tutto tondo, per costruire un sistema resiliente e in grado di garantire la continuità operativa, anche in periodi di particolare crisi, come quello che stiamo vivendo da quasi un anno a questa parte.

Resilienza: quali strumenti per gestire le emergenze?

Ripartiamo da qui, dalla resilienza: in questo complesso periodo storico, a fianco dei dati sulla salute si parla spesso di resilienza delle Organizzazioni… quali sono, nella pratica, gli strumenti a nostra disposizione per gestire le emergenze, siano esse sanitarie, ambientali o di altro genere?
A.Q: Occorre dotarsi di un Sistema integrato di gestione aziendale, che faccia dell’ambiente e della sicurezza sul lavoro i suoi punti cardine, ma che non si dimentichi della terza sostenibilità, cui abbiamo fatto riferimento: quella economica.
Occorre, in sostanza, implementare un sistema di Business Continuity Management, che si accompagni alla riconquista, da parte delle imprese, di un ruolo che nel tempo si è in parte smarrito: le imprese dovranno di nuovo svolgere un ruolo sociale.
Perché se è vero che nella sua prima definizione il concetto di responsabilità sociale d’impresa si basava sulla “integrazione su base volontaria, da parte delle imprese, delle preoccupazioni sociali e ambientali nelle loro operazioni commerciali e nei loro rapporti con le parti interessate”, con il passare degli anni le imprese sono state chiamate a svolgere un ruolo sociale sempre più marcato, e ad essere sempre più consapevoli e responsabili in relazione agli impatti sociali e ambientali generati dalle proprie attività, attraverso un comportamento etico e trasparente che possa “contribuire allo sviluppo sostenibile, inclusi la salute e il benessere dell’ecosistema sociale e ambientale con il quale l’impresa, «sistema aperto» reagisce; tener conto delle aspettative degli stakeholder; garantire conformità alle leggi applicabili e alle norme internazionali di comportamento; essere integrato e coerente su tutta la catena del valore”.
Sono questi i trend che emergono da vari studi, fra i quali quello pubblicato da GreenItaly, che mostrano come l’impegno nelle sostenibilità e in Corporate Social Responsability si traduca in una maggiore produttività e competitività e, in definitiva, in una maggiore resilienza.

Economia circolare e Recovery Fund

Per fare tutto ciò occorrono molti soldi…
A.Q: Assolutamente.
I soldi arriveranno, con il Recovery Fund, ma non basterà questa potente iniezione di liquidità: occorrerà anche saperli spendere, a valle di una pianificazione e una contestualizzazione delle priorità, concentrando gli sforzi sugli unici asset in grado di innescare il cambiamento: sanità, scuola, ambiente e digitale.

Saranno necessari anche interventi normativi che diano un’accelerata alla transizione verde: quali sono, in proposito, le principali novità introdotte dal pacchetto “economia circolare”?
A.Q: Sono molte, e riguardano differenti settori: dalla gestione dei rifiuti a quella dei veicoli fuori uso, dagli imballaggi, fino alle discariche.
Ma al di là dei tecnicismi- non è questa la sede per addentrarci nei meandri della riforma – quello che conta è passare dai bei principî espressi, alla loro concreta implementazione: al momento, infatti, non è operativa quasi nessuna di queste novità, per le quali bisognerà aspettare i famosi decreti attuativi, che verranno emanati non si sa come e non si sa quando…

Mi sembra di aver capito che si tratta di una normativa di facciata, o comunque i cui effetti si vedranno solo in futuro. Del resto, secondo un recente report di REF ricerche, anche le tasse ambientali hanno ben poco di green… Qual è il punto della situazione? E quali le prospettive?
A.Q: Ho letto la ricerca, e purtroppo non posso che confermare il quadro delineato, che non è dei più entusiasmanti.
Vede, le imposte ambientali sono nate in alternativa a obblighi o divieti, come si sottolinea nel rapporto, ma mirano, opportunamente modulate, a guidare in maniera virtuosa le scelte dei cittadini, fornendo gli opportuni incentivi/disincentivi, affinché il mercato interiorizzi l’impatto ambientale, ristorando il danno ambientale arrecato.
Il problema è che oggi, in Italia appena l’1% del gettito delle tasse ambientali è destinato alla protezione dell’ambiente: come a dire, le imposte ambientali non sono altro che uno dei modi escogitati per “far cassa”, senza incidere sul ristoro dei danni ambientali.
L’ultimo esempio in ordine cronologico è quello della “Plastic Tax”: una tassa inutile, oltre che dannosa per chi ha fatto ingenti investimenti per ottimizzarne l’uso in una filiera completa e chiusa, che non considera cioè solo la plastica in quanto tale, ma le modalità con cui viene utilizzata nel corso del suo ciclo di vita, ivi compreso il trasporto.
Una tassa inutile, dicevo, che rivela anche la totale mancanza di un disegno della tassazione chiaro, dal comportamento che si intende correggere, alla valutazione dei costi della transizione e alla mancanza di un sostegno ai protagonisti della transizione, con la conseguenza di penalizzare uno dei settori di punta dell’industria nazionale, con benefici ambientali incerti e un danno economico apprezzabile.

Efficacia, efficienza e pensiero sostenibile

Il quadro sembra quanto mai fosco: non possiamo congedarci con un messaggio di speranza?
A.Q: Ma certo!
Il quadro fosco è la descrizione di quello che per troppo tempo è avvenuto nel nostro Paese, in cui tutto sembra semplice (si parla per ideologie contrapposte, ma mai di gestione dei processi, di far accadere le cose), ma in realtà è complesso e viene reso ancora più complicato da una classe dirigente non all’altezza dei suoi compiti, incapace di legiferare in modo efficace e coerente, ma anzi alimentando il potere di una burocrazia che tutto ferma (e tutto può).
La soluzione – per citare le parole che Marchionne pronunciò qualche anno fa nel corso di un bell’intervento – “non è roba da marziani”, e dipende da noi.
Nel dirlo, in quell’occasione citò una frase di un racconto di Tolstoj, nel quale lo scrittore russo affermava – a proposito della ricerca della verità e del senso della vita – che:

“come sempre suole accadere in un lungo viaggio, alle prime due o tre stazioni l’immaginazione resta ferma nel luogo da dove sei partito, e poi d’un tratto, col primo mattino incontrato per via, si volge verso la meta del viaggio e ormai costruisce là i castelli dell’avvenire”.

Quindi concluse affermando che “l’Italia è stata ferma in quella seconda stazione per tanto, troppo tempo. Con questo, auguro a me – a tutti noi – che l’Italia lasci finalmente la stazione di Tolstoj e inizi davvero il suo viaggio verso la modernità e la costruzione di un paese per giovani”.

Dipende da noi, dice: e cosa dobbiamo fare, se la domanda non è indiscreta?
A.Q: No, la domanda non è indiscreta: a volte possono esserlo le risposte, specie se evasive, come sono state quelle della politica, troppo spesso, fino ad oggi.
La verità, il senso della vita, la felicità non sono solo cose che hanno a che fare con la vita da privati cittadini: nel campo della politica e dell’imprenditoria possono essere tradotti con efficacia ed efficienza.
E per essere felici, nella vita di tutti i giorni, ed essere efficaci ed efficienti, lavorativamente parlando, basta fare una cosa semplice: prendere una decisione.
La decisione, ovviamente, di pensare sostenibile; di percepire il rischio, e di gestirlo; di pensare al (dopo) domani; di sentirsi parte di una comunità solidale; di essere resilienti.
Ecco quello che dobbiamo fare: una risposta semplice e forse, probabilmente per questo, indiscreta.

Redazione InSic

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